
«Attenzione alle paure del giorno. Amano rubare i sogni della notte»
(Fabrizio Caramagna)
Una bella casa molto curata ed affollata di gente allegra. Si dividevano fra cucina e salotto, chi mangiava, chi chiacchierava, chi rideva. Sembrava essere una tipica adunata festaiola di famiglia meridionale. Lei era lì con la sua amica, all’improvviso il campanello.
– Questo è Tizio, mormorò l’amica.
– Ma come ti viene in mente? Che c’entra qui in mezzo e perché mai avrebbe dovuto allontanarsi dal posto in cui è, lasciando tutto il gran lavoro che ha da fare? Tu non stai bene con la testa!, rispose, mentre si accingeva a raggiungere la porta d’ingresso.
Aprì, davanti a lei, sul pianerottolo quasi buio, prese forma tutto il sesto senso della sua amica: la sagoma di Tizio lì davanti, riconoscibilissimo nonostante la scarsa illuminazione; un gran sorriso dai denti bianchissimi e perfetti, i capelli corti ed in ordine, abbigliamento casual per nulla impegnativo, una borsa evidentemente pesante portata con la mano destra, la sinistra poggiata al corrimano della balaustra.
Nessun saluto, lei non avrebbe nemmeno saputo dire se aveva ricambiato il sorriso; su quel pianerottolo solo le parole di Tizio, sicuro dell’accoglienza che avrebbe ricevuto qualunque fosse stata la condizione all’interno di quell’immobile e di chi quella porta aveva aperto:
– Dal momento che c’è da lavorare, mi offri una scrivania?
Noncurante della gente, lei non proferì parola, solo lo fece accomodare e con un cenno della testa lui le indicò la stanza in cui preferiva sistemarsi. La scrivania si riempì di libri, la scenografia mutò di colpo.
Lei e la sua amica erano sempre in mezzo alla folla, questa volta in una situazione che assomigliava molto ad una festa di paese, sempre tipica del sud. Sera, luci, cavaiola (tanta gente) e le transenne a regolare anche il traffico pedonale.
– Ehi, guarda alla tua sinistra, c’è Caio con la zia, sussurrò all’orecchio dell’amica, sperando che l’immensa mole di capelli ricci non impedisse alla sua voce, tenuta volontariamente bassa, di arrivare al timpano.
Caio era un bambino che lei aveva conosciuto molti anni prima, di cui non sapeva più nulla all’atto pratico, ma di cui conosceva molto bene la storia. Un bambino a cui, da lontano e senza ragione precisa, voleva un gran bene da sempre.
La zia, un tailleur nero con una canotta bianca, lo lasciò un momento per entrare in un negozio, il bambino nella folla si mosse, attraversò la strada, la cercava, era evidentemente spaventato. Lei, intanto, da dietro la massa di capelli della sua amica non lo aveva perso di vista un solo momento. Era piccolo, nonostante la sua età, gracile come lei pensava fosse.
Certa di non poter essere riconosciuta, timorosa di poterlo spaventare a causa di questo, se ne infischiò, strattonò la folla, corse da lui, si chinò sulle ginocchia:
– Amore non avere paura, zia è in quel negozio, ti ci porto, stai tranquillo.
Era terrorizzato, accettò di darle la mano (è con quel gesto che i bambini regalano tutta la loro fiducia), lo prese in braccio, lo portò verso quel negozio più velocemente che poteva, il suo unico desiderio era che quel cuoricino impazzito che sentiva battere a ottocento bpm sotto le mani, trovasse pace.
– Signora, il bambino. Ha attraversato da solo, si è spaventato.
La zia trasalì
– Oddio, mi sono fidata.
Lei non le parlò più; solo porgendoglielo disse al piccolo:
– Non muoverti mai quando rimani solo. Resta fermo nel posto dove ti lasciano, così non puoi perderti. Ciao amore, va tutto bene. La zia è qui.
Lo lasciò, andò via e fu contenta di non aver mai ceduto all’istinto di chiamarlo con il soprannome che ben conosceva. Meglio una sconosciuta totale, che una pazza mai vista prima che conosce di te una cosa tanto intima, aveva pensato.
Non tornò dalla sua amica, perché non c’era nessuna amica da cui tornare. Solo si svegliò, stava sognando. Non trasalì, si alzò tranquilla peraltro al suono della sveglia, tant’è che non ricordava niente del sogno, se non il volto del bambino dietro la transenna, al primo istante in cui lo aveva visto: occhioni scuri e sveglissimi, orecchie grandi, capelli corti, il pallore della luna.
Fu solo mentre inviava il buongiorno alla sua amica, con l’intento di dirle tutto, che si fermò un attimo a pensare. Il sogno non era tutto lì. Era in bagno, restò a fissare il muro e lentamente le vicende si ricomposero nella sua mente come un puzzle che prendeva forma lentamente: la sua amica, un adulto Tizio, un bambino Caio, una zia. Esistevano tutti, eccetto la zia completamente inventata dal suo subconscio. Non avevano niente a che fare l’uno con l’altro nella realtà, ma proprio niente: perché mai li aveva sovrapposti?
Facile, pensò: l’amica che tutto sa e che ovunque è, un adulto Tizio che bussa e di cui all’improvviso non si può vedere altro, un bambino Caio che non ha attinenza con niente di tutto il resto e che prende le sembianze del protagonista. Un solo filo conduttore: era sempre sera.
Nondimeno, l’unico che nel pericolo o dallo spavento andava per lei salvato, a costo di qualsiasi cosa, fosse anche di quanto la riguardava strettamente, l’unico, era proprio il bambino.
Davvero semplicissimo. Credeva da sempre in quello che aveva detto Bonhoeffer: il senso morale di una società si misura su ciò che fa per i suoi bambini e anche se per alcuni di loro lei aveva potuto e poteva fare davvero molto poco, le mancavano: le mancavano moltissimo.
Qualcuno, tangibilmente o dal suo stesso subconscio, le avrebbe svelato qualcosa d’altro? Alla prossima notte abitata e non prevista, si disse. O al prossimo giorno che verrà, se verrà.