«Non aspettar mio dir più né mio cenno; 
libero, dritto e sano è tuo arbitrio, 
e fallo fora non fare a suo senno: 
per ch’io te sovra te corono e mitrio».

(Purgatorio XXVII, vv.139-142)

In più di un’occasione, sin qui, ci siam trovati davanti a un canto di transizione, ma il ventisettesimo del Purgatorio segna un passaggio speciale. Dante, Stazio e Virgilio, sulla scorta delle parole dell’angelo della castità, sono invitati ad attraversare il muro del fuoco che accoglie i lussuriosi e si troveranno così ad ascendere la scala che conduce al paradiso terrestre.

Certo, prima Dante dovrà lottare fino in fondo con le proprie titubanze e, per dargli urgenza, occorreranno ancora le parole di Virgilio ad allettarlo come si fa con un bambino, ricordandogli che è ormai prossimo l’incontro con Beatrice…

Attraversato il fuoco, tanto rovente da trovar più refrigerante un tuffo in vetro bollente, ecco di nuovo incalzante la voce di un angelo che invita a camminare quanto più possibile mentre il sole tramonta. In realtà, i tre si addormentano sui gradini che li porterà, il mattino seguente, nel giardino di Adamo ed Eva e Dante sogna la biblica Lia, allegoria della vita attiva, che racconta di sé e della sorella Rachele, che è invece allegoria della vita contemplativa.

Ci siamo. Tra un po’, nel canto trentesimo, Virgilio dovrà separarsi dal diletto allievo e, pur nella sua saggezza, già presagisce con un velo di tristezza il momento dell’addio. “Ficca gli occhi” (v.126) in quelli del «figlio» (v.128), ribadendo i propri limiti (dov’io per me più oltre non discerno, v.129), e lo prepara al commiato con i versi che scaldano il cuore:

«Tratto t’ho qui con ingegno e con arte;
lo tuo piacere omai prendi per duce;
fuor se’ de l’erte vie, fuor se’ de l’arte

Non aspettar mio dir più né mio cenno;
libero, dritto e sano è tuo arbitrio,
e fallo fora non fare a suo senno:
per ch’io te sovra te corono e mitrio»

(Purgatorio XXVII, vv.130-132.139-142)

In libera parafrasi: Con l’ingegno e con l’esperienza ti ho guidato sin qui; ora, affrancato da meschinità, puoi prendere per guida il tuo solo piacere, ormai educato a quanto è bello e buono; sì, sei finalmente libero dalle vie ripide e strette di chi aspira alla redenzione. Non hai più bisogno di attendere un mio insegnamento o un mio cenno di assenso. La tua capacità di giudicare è libera e rettamente centrata, per cui sarebbe un errore non seguirla. Perciò io ti incorono signore di te stesso.

Non aggiungo altro, se non questo: finché un padre e una madre, un insegnante (in-signo …ti segno dentro), un educatore potranno ripetere parole simili al proprio figlio, al proprio alunno, al proprio educando, ci sarà ancora luce su questa terra.

Don Milani: «Avere il coraggio di dire ai giovani che essi sono tutti sovrani, per cui l’obbedienza non è ormai più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni, che non credano di potersene far scudo né davanti agli uomini né davanti a Dio, che bisogna che si sentano ognuno l’unico responsabile di tutto».

Ilaria Gasparri, all’indomani della morte di David Maria Sassoli: «Perché la gentilezza è gratuita, non attende nulla in cambio. Eppure richiama altra gentilezza, in un ciclo che si alimenta, ma non per automatismo: si alimenta della volontà di chi a quel ciclo partecipa, malgrado i cortocircuiti, malgrado gli inceppi delle passioni tristi».

Joseph Rudyard Kipling: «Sarai un Uomo, figlio mio».