Come un gattopardo…

Era nobile di madre e di padre sino alla decima generazione. Sangue che più blu non ce n’è. Bello come il sole a mezzogiorno, possente come le chiese barocche,  alto come il Mungibeddu, non c’era donna che non lo guardava, dalle vecchie rinsecchite e nere come le pietre di Catania alle giovani in fiore.

Il barone stava superando la sessantina e cominciava a cambiare sguardo. Aveva la stessa  moglie scialba che a sua volta chiedeva indifferenza, sempre  col giardiniere  a curare quelle maledette rose. Avrebbe dovuto provare gelosia ma neanche quella arrivava, avrebbe dovuto lasciarla. Altro che gattopardo.

Sua figlia, la sua unica figlia e erede, aveva preferito grattacieli e freddo. Rideva del suo titolo nobiliare, parlava un’altra lingua  e beveva lunghi caffè che parevano granite sciolte. Non pensava mica ai terreni da coltivare.

Allora, se tutto doveva cambiare perché niente mutasse, non era cambiato un bel niente davvero e i giovani erano diversi, partivano per andare.  Aveva viaggiato sì sul continente ma sempre per tornare, con un  peso al collo, sempre tenendosi quella inflessione della voce che è un picco e un urlo rauco. Altro che gattopardo.

Il circolo ricreativo era stata un’idea di suo nonno. Uno nutrito gruppo di nobili che si ritrovava a pomeriggio e sera. A conversare ed erano le stesse diatribe da anni? Come se il mondo fosse lì, nei  privilegi di guardarsi agli specchi ruffiani, mentre la vita era altrove. E la nobiltà, quella vera dell’animo, su quale rosso divano stava?

Non era colpa sua. La sua amata Sicilia lo aveva consumato. Il caldo torrido, i cibi pesanti, gli odori intensi, tutto era troppo. La Sicilia è un dinosauro, meglio è un drago che sputa fuoco e distrugge anche ciò che ama. Questo aveva appreso, ad aprire bocca e dare fuoco ed era stato bravo: con sua moglie, coi suoi operai, con sua figlia. E tutti lo ricambiavano con dovuto, educato, sincero disprezzo. Altro che gattopardo.

Colpa dell’isola. Colpa delle Sante che senza occhi non vedono, colpa di Archimede che acceca con gli specchi, colpa dello zucchero e cacao che annebbiano il cervello.

Colpa di un passato presente futuro coperto da polvere lavica, al gusto di gelsi neri, pungente come fichi d’india, salato come capperi.

E ora che fare? Trovarsi una giovane amante dalla pelle di seta? Lasciare incolte le terre?Gocce di sudore gli imperlarono la fronte.

Il barone si abbassò la visiera, guardò la cupola storta che era tale per poter essere vista da lontano. Se finanche le chiese ingannano, figuriamoci gli uomini. Ma gli uomini coltivano le terre e la terra non mente mai.

Bevve acqua, limone e sale e, con la gola arsa, non prese la strada per il circolo.

Colpa sua invece e  ancora poteva tornare sui suoi passi, velocemente, voracemente, proprio come un gattopardo.


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