«Ho perso un po’ la vista, molto l’udito. Alle conferenze non vedo le proiezioni e non sento bene. Ma penso più adesso di quando avevo vent’anni.
Il corpo faccia quello che vuole. Io non sono il corpo: io sono la mente»
(Rita Levi Montalcini)
Vi hanno mai portati all’esasperazione totale? Vi siete mai sentiti tirati fino allo stremo, sull’orlo del baratro, a un millimetro dal primo scricchiolio della lacerazione della carne?
Quel giorno lei ci era arrivata e lo aveva sentito arrivare lento, mica bruscolini: piano, piano, di giorno in giorno, una specie di countdown inesorabile che la guardava dritta in faccia e non accennava a spostarsi.
O meglio, non si sarebbe spostato.
Erano state ore, ore ed ore di continuo duello e lei lo sapeva. Il conto alla rovescia non avrebbe cambiato nulla del suo saccente ed implacabile stare lì: l’unica via di uscita era che lei dichiarasse resa, dipartita. Se voleva finirla prima della partita definitiva, doveva cedere.
E perché doveva finirla prima, mi chiederete? Perché si stava rompendo, semplice. Si stava proprio sfracellando e mentre attendeva l’inderogabile Big Bang, non aveva più contezza oggettiva di nulla di quanto le accadesse attorno.
Il caffè della mattina era diventato meccanico, uscire di casa per andare al lavoro era diventato meccanico, affrontare il suo mestiere che tutto era meno che meccanico, le veniva fuori automatico. Insomma, quello che non poteva diventare meccanismo, diventava automatismo: fatte salve le parentesi contro cui non poteva nulla. Alcune di quelle la strattonavano dove non voleva stare, in sé stessa, e le ricordavano che era quell’esatto luogo la causa della clessidra.
Non fosse stata lei, si sarebbe risparmiata oltre 2/3 di tutto quanto le toglieva il respiro: un po’ per scelta, un po’ perché niente si sarebbe mosso in tal senso.
Parliamoci chiaro, avrebbe vissuto benissimo comunque, anche in assenza di quasi tutte le cose che si era cercata da sola e che aveva finito per trovare. Ne aveva sommate troppe, pensava nei momenti in cui riusciva ad uscire dalla sua nuova parte robotica, ma poi lo dimenticava perché l’hardware ormai lo aveva programmato e quello camminava in perfetto linguaggio binario. Non c’era verso di fargli intendere altro.
In tutto questo favoloso mondo di Amelie, che di favoloso sembrava avere ben poco, nell’istante in cui doveva partire il famoso scricchiolio della lacerazione, in mezzo ad uno dei tanti meccanismi ormai quotidiani, saltò su una voce, che nessuno aveva chiamato in causa, almeno non in quel senso: Ti ricordo che io non sono mai riuscita a capire come tu faccia a fare quello che fai. Un impegno in più o in meno, non cambia niente questo punto. Tu non puoi riposare mai e per me è qualcosa di spaventoso e ammirevole (ma non invidiabile).
Sbadabam! Il ceffone in pieno volto! Quella voce non solo aveva detto la verità, ma l’aveva fatta sentire riconosciuta. E sentirsi riconosciuti, si sa, è l’unico modo per sopravvivere.
Dunque no, non aveva niente per cui essere invidiata, ma andava avanti come un treno in modo spaventoso, ma ammirevole. E no, non era l’ammirazione ad aver fatto la differenza, ma il fatto che qualcuno lo avesse visto e, d’improvviso, lo avesse detto.
Non era nemmeno una questione di necessità di approvazione, perché lei era integra nel restare sé stessa e nell’agire secondo la sua testa dura.
Era solo che non ne aveva preso coscienza, non si era accorta che non riposava mai e che non aveva scelta: stava camminando su quella strada e comunque viva restava.
Badate bene, avrebbe continuato, non esisteva nessuna possibilità smettesse, fino a che la salute glie lo avesse permesso: ma quella voce, per un istante le aveva dato ristoro
Era stato come aver sentita dichiarata la sua esistenza e tutto questo non era affatto scontato, non era affatto poco: poteva essere salvezza.
Ma lo avrebbe scoperto solo nel momento in cui la sabbia, nella clessidra, avrebbe finito di scendere lasciando spazio al gong.