È quando le cose sembrano finire, che se ne percepisce la natura e la forma, come si fosse legittimati solo in quel momento a farsi davvero un metro indietro per guardarle per interno

Sembra trascorso un lasso di tempo indecifrabile dal giorno in cui la mia amica Teresa mi telefonò e mi chiese dove fosse Codogno, rispetto al posto in cui vivo. Ricordo quello che fu il mio primo istintivo pensiero dubbioso: deve salire per qualche motivo e vuole venire a trovarmi? Ed in un istante mi risposi che non poteva essere, ha la mamma cieca con un femore rotto, non avrebbe potuto certo percorrere 1300 km così, di botto. Ciò che non ebbi il tempo di fare fu chiederle il motivo della domanda. Le indicai le distanze e mi invitò ad accendere immediatamente la tv, era nel panico.

Numeri su numeri (li detesto da sempre) verso un inarrestabile aumento che fece di Codogno la Las Vegas italiana dei malati prima, della Lombardia il fulcro di un’epidemia subito dopo e del nord Italia il confine rosso porpora dei contagi.

Una velocità tale da non potersi in alcun modo rendere conto del cambiamento epocale in cui avevamo messo il piede, le sabbie mobili in cui eravamo finiti senza scelta e senza misura, il radicalmente altro a cui eravamo stati sottoposti e saremmo diventati.

Il mondo fu improvvisamente pandemico.

Al passato remoto, il tempo verbale corretto dei racconti antichi e che invece, in quel nord dilaniato, considerano un errore del lessico meridionale: loro non lo usano. Io sì. E non solo perché non c’è oncia di me esente da terronite acuta e purulenta, ma perché parlo di qualcosa che di fatto sarà pure recente, ma sento come lontanissima. Ergo, chissenefrega dei tempi e degli spazi oggettivi, quelli veri sono solo quelli percepiti, ci compongono.

Era Carnevale, giravo per una sorprendente Madrid e finii per comprare mascherine a Toledo. Nel pieno centro di quella città spagnola, in una tiepida sera di febbraio, sistemavo un file grafico con il cellulare, subito prima di approdare lì avevo ricevuto il testimone delle mie classi dalla supplente che mi aveva sostituita per un infortunio, frequentavo giornalmente l’ospedale per la fisioterapia e sentivo spesso alcune persone: qui si ferma la mia memoria lucida.

Come se mi si sdoppiasse la mente: so cosa è accaduto e mi è accaduto, ma la velocità degli eventi, sin dal primo giorno dopo l’ultimo giorno di scuola (tanto per segnare un tempo indicativamente preciso) me li fa vedere come fosse la prima volta.

Ecco che tornano le parole in testa a queste righe: qualcosa sembra essere finito ed è come se solo ora fossi distante un metro e lo vedessi. Ironia della sorte, distante esattamente quanto distanti si deve stare gli uni dagli altri. Fuori dal flusso.

Dalla telefonata di Teresa alla sospensione delle lezioni: il tempo di contare le toppe colorate del vestito di Arlecchino.

Per ritrovarsi altrettanto improvvisamente al ritorno alla normalità avvenuto ufficialmente con l’ennesimo DPCM, verificatosi nella mia vita con l’arrivo di un banalissimo messaggio da un mittente qualunque: aveva solo la caratteristica di essere, ovviamente, il messaggio normale di qualcuno che non si sentiva esattamente dall’inizio dell’incubo. Un’amica che avevo sentito poco prima della chiusura della gattabuia e che è tornata a chiedere come fosse andata, subito dopo. Niente di che, eppure, di nuovo Teresa. Le ho detto di quel messaggio a mo’ di pettegolezzo e mi ha risposto che le risuonava come uno schiaffo dritto in faccia teso al risveglio: riportarci nell’esatto punto dove potevamo anche pensare di esserci addormentate. Lì, dove fuori tutto si era fermato e dentro aveva iniziato ad andare a milleottocento giri al minuto.

Aveva ancora una volta ragione, un sonoro ceffone nella faccia a pretendere di riportare tutto ad una normalità che non può più esistere, se ci resta un briciolo di coscienza morale. Posto che a partire dalla scuola e da quello che continuano a provare ad imbonirci come da docenti fossimo stupidi (fossimo?) rispetto ad una ripresa in sicurezza seriamente possibile, posto ancora quello che succede intorno, sembra essere finita… ma io non ci credo neanche un po’.

Perché non serve parlare di cose così grandi, per dire con certezza che nulla di quanto ci accade ci modifica e ci ristruttura totalmente, se non entra nel nostro sapere. Ogni passo, messo o non messo, delinea continui cambi di abito, scena e percorso. La meta è comunque scritta, mi direte, sempre a quel libro stiamo segnati avrebbe testualmente detto mia nonna. Avete ragione, il punto di arrivo è immodificabile, la storia della strada, invece, cambia continuamente, con buona pace delle nostre scelte e dei nostri desideri: che siano o meno accadute delle cose, che ci siano o meno state delle presenze. Del resto, si sa, le assenze o le cose non accadute, dacché mondo è mondo, hanno scritto molte più pagine di storia delle presenze e degli eventi oggettivamente verificatisi.

Dunque no, non c’è normalità a cui tornare, non c’è passo indietro da fare, poiché dopo certi momenti, nessuno sarà mai più quel che era e la normalità non si fa da sola, si costruisce proprio con ciascuno di noi. Modificati irrimediabilmente gli elementi costitutivi poiché segnati da ciò che è stato, tanto più dal non accaduto, personalmente non posso certo permettermi di impazzire dietro all’ignobile senso dell’ottuso di chi si illude che la normalità stia nell’avere il permesso di tornare al bar a prendere un caffè.

Pertanto, penso a Castaneda e lo ricordo, quando focalizzo che di fatto, come lui diceva, abbiamo solo due alternative; o riteniamo che sia tutto certo e reale, oppure no. Se seguiamo la prima ipotesi, arriviamo alla morte annoiati di noi stessi e del mondo. Se seguiamo la seconda, creiamo una nebbia intorno a noi, una situazione molto eccitante e misteriosa, nella quale nessuno sa dove balzerà fuori il coniglio, nemmeno noi stessi.

E così facendo, inattesi conigli dal cappello del mago vengono fuori di fatto, sempre, e potrebbero essere sorprese: magari esattamente inverse a quanto duri siano stati certi giorni.

Perché ci sono giorni che sanno essere amaramente belli, quanto amabilmente tremendi.

E per quanto aborro l’idea di elargire consigli non richiesti, mi scappa un suggerimento: non crediamo che esista una normalità di riferimento. La normalità è in ciascuno di noi. E nessuno di noi, oggi, è quel che era ieri così come, sono pronta a scommettere quello che ho di più caro nella vita, domani sarà lo stesso di oggi.

Non si torna mai a nessuna normalità, perché la normalità, semplicemente, non esiste. È uno schema dettato da bisogni societari e convenevoli. Finzione posticcia. Stereotipo di bassa levatura.  “Effetto prorompente di dottrine moraliste”. L’unica via per tornare, piuttosto, sta nella città dove si accetta che lo schema si modifichi inevitabilmente, il cui centro storico è intitolato così: “ricominciare a fluire”.


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Sono una frase, un verso, più raramente una cifra, che letta al contrario mantiene inalterato il suo significato. Un palindromo. Un’acca, quella che fondamentalmente è muta, si fa i fatti suoi, ma ha questa strana caratteristica di cambiare il suono alle parole; il fatto che ci sia o meno, a volte fa la differenza e quindi bisogna imparare ad usarla. Mi presento: Myriam Acca Massarelli, laureata in scienze religiose, insegnante di religione cattolica, pugliese trapiantata da pochissimo nel più profondo nord, quello da cui anche Aosta è distante, ma verso sud. In cammino, alla ricerca, non sempre serenamente, più spesso ardentemente. Assetata, ogni tanto in sosta, osservatrice deformata, incapace di dare nulla per scontato, intollerante alle regole, da sempre esausta delle formule. Non possiedo verità, non dico bugie ed ho un’idea di fondo: nonostante tutto, sempre, può valerne la pena. Ed in quel percorso, in cui il viaggio vale un milione di volte più della meta ed in cui il traguardo non è mai un luogo, talvolta, ho imparato, conviene fidarsi ed affidarsi.