L’alfabeto di Dante

La Commedia si apre con Dante smarrito nella selva. Il suo cammino verso il «dilettoso monte», simbolo di una vita virtuosa, è ostacolato da tre bestie che con la loro violenza lo minacciano fino a farlo retrocedere nella «selva oscura», immagine dello stato di confusione e peccato in cui il poeta appare perduto. Se Dio è luce, l’oscurità di quel luogo impervio esprime l’assenza del chiarore divino e, quindi, lo stato della creatura che vive lontano dal suo Creatore, nelle tenebre. Il peccato, infatti, induce l’uomo ad entrare e permanere nella regione della dissomiglianza, in cui i lacci del male lo tengono stretto fino a quando egli non decida di volgersi verso Dio.

Dopo la lonza, simbolo della lussuria, e il leone che simboleggia la superbia, il cammino di Dante è ostacolato da una terza fiera:

 

Ed una lupa, che di tutte brame
sembiava carca ne la sua magrezza,
e molte genti fé già viver grame,
questa mi porse tanto di gravezza
con la paura ch’uscia di sua vista,
ch’io perdei la speranza de l’altezza. (Inf. I, vv. 49-54)

 

La lupa non può che essere simbolo dell’avarizia il cui significato comprende anche i suoi risvolti più negativi quali la rapacità e la cupidigia. La bestia è descritta da un ossimoro –carca…magrezza- che ne amplifica il significato morale. Infatti, come la lupa è contrassegnata dalla sua «fame sanza fine cupa» (Purg. XX, 12), così l’avaro desidera possedere ogni bene, dalle ricchezze agli onori, dal potere ai beni mondani; e in questa continua sete di possesso, la sua ricerca di felicità non trova affatto appagamento. Per questo la lupa è anche la «bestia senza pace», perché perennemente insoddisfatta dai e dei beni che possiede.

 

L’eccessivo attaccamento alle cose materiali e la condotta messa in atto per possederle è per Dante l’origine di ogni disordine nella società. La mancata realizzazione della giustizia sulla terra dipende dalla cupidigia che spegne nell’uomo l’amore di Dio e gli fa desiderare «con troppo di vigore» (Purg. XVII, 96) quei beni che sono da desiderare in relazione al bene sommo che è Dio, la sola fonte di felicità. Non a caso nella terza cantica, lì dove la felicità diventa visibile nel sorriso dei beati, insieme al termine «brama» ritornano le parole-rima in ezza che già nell’Inferno erano state impiegate nell’impietosa descrizione della lupa:

 

Oh gioia! oh ineffabile allegrezza!
oh vita intègra d’amore e di pace!
oh sanza brama sicura ricchezza! (Par. XXVII, vv. 7-9)

 

Alla «gravezza» che suscita la vista della lupa si oppone l’«allegrezza» del paradiso; alla sua cupiditas subentra quell’unica ricchezza «senza brama» che deriva dalla comunione con Dio. Nel terzo regno finalmente tutto è pace e amore, l’esatto contrario dell’insoddisfazione dell’avaro di cui era potente simbolo la «bestia sanza pace». Nello spazio che va dalla «brama» della lupa alla «sanza brama sicura ricchezza» del Paradiso, vi è tutto il senso dell’esperienza del pellegrino. Ed è soprattutto uno spazio interiore. Il suo viaggio, infatti, si compie per conoscere ciò che abita il cuore dell’uomo e quale sia il desiderio che lo infiamma. La risposta di Dante è nelle «stelle», termine che chiude le tre cantiche facendo coincidere l’umana felicità con uno spazio di libertà che permette all’uomo di non essere prigioniero delle cose.

L’uomo avaro, infatti, tende sempre ad accumulare, a far crescere le sue ricchezze senza sosta. Ma questo sforzo, per quanto possa donargli maggior sicurezza e meno ansie per il futuro, coincide poi con la sua felicità? Totò amava ripetere che se i soldi non fanno la felicità, la miseria ancor di più; ma la miseria è solo quella del portafoglio vuoto? Scrive S. Schimmel, psicologo e sociologo americano: «L’avarizia si manifesta in modi molteplici. Il competitore assassino, l’ammalato di lavoro, il truffatore, l’avaro e il giocatore d’azzardo, sono tutti avari. Questo amore del denaro è riempito da altri vizi e porta a molti mali[1]. Nel cercare di soddisfare l’avarizia si può nuocere a noi stessi e agli altri, sia fisicamente che psicologicamente. Questo è il suo paradosso – sebbene miri ad aumentare il piacere con l’acquisto di beni e servizi, essa spesso lo fa alle spese del piacere e della felicità» (S. Schimmel, The seven Deadly sins, pag. 166). Dante lo pensava già nel 1300.

[1] La descrizione di Schimmel sembra risentire del lapidario verso di Dante dedicato alla lupa: «molti son gli animali a cui s’ammoglia» (Inf. I,100).