La natura della religiosità, quale fede pensata non intorno a un puzzle di dogmi o assiomi similari, ma a par­tire dalla storia in­tesa come correlazione critica di esperienze, è un dialogo multidisci­plinare soprattutto con le multiforme scienze e culture: il più adatto e rispettoso della propria natura vista come ascolto dei dati e delle istanze emer­genti nella società. Non bisogna dimenticare che i destinatari della fede e delle scienze umane sono i medesimi soggetti al cui sviluppo integrale tutti devo­no concorrere.

È impensabile percepire la fede fuori da un contesto: un contesto che interroghi e stimoli la stessa fede… nel nostro caso il Sud e la Puglia. Qui, in questo lungo, dove si muore ancora nei vigneti, quasi di nascosto, per un tozzo di pane, la fede come ricerca saprà riscoprire un proprio ruolo e un proprio percorso di liberazio­ne?

Spesso la religiosità meridionale, a causa delle tantissime manifestazioni popolari, è derisa, dimenticando che “l’uomo meridionale” non è inaridito dall’efficientismo ma è portatore di “festività”, cioè del gusto delle cose. Ha il senso dell’amicizia come “ac­coglienza” gratuita dell’altro. Ha l’esperienza del sacrificio e, quindi, il sapore delle cose. Mostra una sentita religiosità dell’esistenza.

È qui che il dialogo-confronto si sviluppa e diviene più “con­testualizzato”. Occorre quindi rivedere quei “luoghi comuni” che circolano talvolta intorno al nostro Sud ridotti alla lettura della sola dimensione eco­nomica. Purtroppo la modernizzazione senza lo sviluppo non ha portato i pur significativi trasferimenti di risorse verso il Mezzogiorno a favorire uno progresso economico autopropulsivo, ma sono stati in­dirizzati verso i consumi e l’assisten­zialismo sociale ed economico creando dipendenza. Qui una frangia di politica, tutt’altro che tramontata, ha innescato un arrembaggio alla cosa pubblica sublimando certi interessi personali e particolari a quelli generali.

La coscienza della nostra gente del Sud non può fer­marsi ad essere declamatoria o recriminatoria; così come la fede di popolo deve partire dagli “eventi” piutto­sto che da compiacimenti o da lamenti. Certamen­te occorre uscire dal peccato di vitti­mismo e dai complessi di “autoflagellazione”, come anche da quel fata­lismo di cui il meridionale è impregnato in maniera da non subire la storia, bensì di comu­nicare con essa coltivando una “speranza”, che non è utopica, bensì fermento di libe­razione continua e radicale, costituita dalla cultura della solidarie­tà, che costituisce la punta propositiva e indispensabile per quell’etica “diversa” che, sola, può fondare una nuova relazione umanizzante e liberante.

In conclusione, l’ambito territoriale, so­ciale e culturale, della fede è un appello a conte­stualizzare, a ripen­sare e rielaborare il discorso religioso con le sue tipologie antiche e nuove, superando dipendenze clericali di stampo dogmatico: uno stimolo alla creatività e a quella rielaborazione comunitaria di temi e cate­gorie che sfociano poi in scelte operative prioritarie.