Se nel diciottesimo secolo lo stile barocco ha conosciuto prosperità e clamore, il merito è sicuramente da attribuire a Johann Sebastian Bach. Considerato universalmente uno dei più grandi geni della storia della musica, Bach ci ha regalato opere notevoli per profondità intellettuale, padronanza di mezzi tecnici e bellezza artistica. Summa di diversi generi, il suo talento mirava ad un pubblico altolocato, gente non solo erudita, ma bramosa di cogliere l’aspetto colto della vita. L’Aria sulla quarta corda, in Re maggiore, funge proprio da sprone, solletica la curiosità del prossimo, anela alla conoscenza, invita ad ampliare il bagaglio dello scibile umano. Nella cosiddetta ouverture orchestrale, Bach abbandona il filone melodrammatico dei suoi contemporanei, abbracciando l’eccitante spirito di Vivaldi, applicando post-it colorati anche agli angoli più bui dell’esistenza.

Un risveglio, insomma, la drastica accettazione dell’essere ancora di questo mondo, lottare per le cose che ci rendono felici. Come un viaggio, quello che l’Odysseo di James Joyce intraprende, fiero di avventurarsi su nuove terre, quasi cercasse di esplorare invisibili ripostigli dell’anima. L’anima è quella di Tim Finnegan, protagonista di un romanzo che Joyce preferì scrivere ai suoi personalissimi titoli di coda, l’epifania per eccellenza di un uomo frastornato da un’acqua benedetta che, volgarmente, soleva chiamare whiskey. Per quel cicchetto moriva, grazie a quel bicchierino rinasceva assetato, certo di dissolutezza ma, indubbiamente, di intenzioni sbagliate che solo il mettersi in gioco può dare.

Finnegan’s Wake. Eccolo, il genitivo sassone che ci restituisce un senso di appartenenza, probabilmente, mai dimenticato. Appartenenza a qualcosa di più grande? Macché, si sentiva il bisogno di trascendere le galattiche teorie copernicane o le ribelli idee galileiane! Ci si doveva interrogare, Bach e Joyce l’avevano fatto con flussi di coscienza che scavavano dentro, nel nostro nucleo più intimo, il quid che i fisici statunitensi Murray Glan-Mann e George Zweig trasformarono in Quark.

Un’altra epifania, l’ennesima. La scoperta di un substrato di realtà che conoscevamo sin dal grembo materno e che riaffiora quando certi versi o determinate note raggiungono, involontariamente ma consapevoli, la quarta corda del nostro cuore, l’aria di cui non possiamo fare a meno, la brezza senza cui moriremmo soffocati da pregiudizi sensoriali che non ci nobilitano.

Perché, in fondo, si può oziare anche in modo costruttivo guardando il giusto programma televisivo!