
«Punta sulle nuvole, sugli alberi e su altre cose mute, non tue, non vicine, non addestrate a compiacerti. Punta sulla luce, cercala sempre, infine punta sulla tua follia, se ce l’hai, se non te l’hanno rubata da piccolo»
(Franco Arminio)
Punta sulle cose mute, non addestrate a compiacerti: parole che mi hanno folgorato e, d’un tratto, mi hanno fatto intuire che nella natura si cela e rivela un’altra meraviglia. La stessa che, per quanto sia pazzamente innamorato di ogni riflesso dell’universo, è per me ancora tutta da scoprire. Proprio tutta!
E già. La malattia della cultura occidentale, quanto mai cronica nel tempo in cui viviamo: l’antropocentrismo. A torto o a ragione, per certi versi ottusamente, ci sentiamo l’ombelico del mondo e per questo in diritto di violentarlo e rovinarlo. Il principio dell’homo mensura di Protagora è roba da ragazzini rispetto alla stupida muscolarità con cui ci convinciamo che “c’è tutto un mondo intorno” a noi.
E invece: sai che c’è? Che la nuvola scorre libera e leggera e se ne infischia di noi. La sua bellezza nulla deve alle nostre manie e, a dirla tutta, manco sa che esistiamo. Con gli alberi, magari, è un tantino diverso. Gli alberi sono esseri viventi, ma hanno la saggezza di parlare solo con il mormorio delle fronde, roba incomprensibile per noi assuefatti a cuffie che, dritto nelle orecchie, ci sparano decibel da stordire i sordi.
Ma le cose mute! Quelle sì che sono vera poesia. Un sasso che ha sfidato miliardi di anni per finire tra le tue mani. Un pezzo di corallo. Una perla. Una zolla sempre fertile a dispetto del tuo calpestarla. L’acqua dell’oceano. Una cascata. Le vette dei monti. La luce delle stelle. Meraviglia incomparabile. E muta. Almeno fino a quando non avremo finito di deturparla.
E poi, la tua e mia follia. Quella sì che parla e si fa notare. Se non l’hai persa. Se non te l’hanno rubata da piccolo!
Ma ci pensi? Si invoca di continuo il Telefono Azzurro. In molte drammatiche situazioni, lo si invoca a ragion veduta. In altre, anche solo per un’inezia. E invece bisognerebbe comporre il 114 ogni volta in cui a un bambino si porta via la capacità di fantasticare, di sognare, di andare oltre, di essere folle. Per obbligarlo a “restare coi piedi per terra”!
Caro lettore, adorata lettrice,
hai già notato il corto circuito di queste misere e sghembe parole in libertà?
Siam partiti considerando la necessità di ascoltare le cose mute, le sole in grado di smascherare il nostro insulso sentirci centro del cosmo, e siamo giunti a dire che nessuno è legittimato a privarci della follia: inclusa quella che si ostina a credere che tutto abbia un senso, che una trama e un ordito, nonostante tutto, esistano; e si intreccino a comporre un quadro il cui disegno il più delle volte ci sfugge.
Solo un folle potrebbe credere che non c’è sconfitta che sia definitiva. Solo un folle può sfidare la morte con la luce della speranza. Solo un folle può ostinarsi a “seguitare una muraglia che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia”, alla ricerca di un varco tanto più atteso quanto più irraggiungibile. Insomma, solo un folle può continuare a puntare sulla luce. Fosse anche e solo quella, povera e riflessa, della luna di notte. Quando tutto il resto sembra avvinto dal buio.
Sai, mi piacerebbe sapere cosa ne pensi anche tu. Sei con me? Allora, per il momento, gustiamoci questo nostro caffè. Più in là, se ti va, mi scriverai…