«Dormi sepolto in un campo di grano

Non è la rosa, non è il tulipano

Che ti fan veglia dall’ombra dei fossi

Ma sono mille papaveri rossi»

(Fabrizio De Andrè)

Molte cose si sono cristallizzate davanti alla foto di un campo di papaveri: del campo e del suo fotografo divisi da una rete che prima non c’era.

Prima quando? Non lo so. Prima è prima, qualunque sia il suo quando.

Il fatto è che quella rete resterà sempre, ormai. Abbiamo vissuto una realtà altra, per un po’, che non ho voglia di dimenticare.

È stato il passaggio in un’esistenza parallela e sorprendentemente auspicata, da un lato, quanto terribile dall’altro.

Abbiamo perso improvvisamente tutti gli ancoraggi della vita precedente, che erano gli unici di nostra conoscenza. Come togliere ad un bambino l’unica casa che ha conosciuto dacché è nato.

Come si fosse aperta una finestra su un’altra dimensione possibile, allo stesso modo di quando sogniamo. La differenza è nella consapevolezza che non era un sogno, ma silenzio: e quel silenzio io me lo porto dietro.

La realtà si è scardinata dalle sue certezze. Adesso sappiamo che ne esistono altre; come ogni ignoto destabilizza e qualcuno faticherà a superarlo, perché non tutti siamo eroi come i bambini, non ancora irrigiditi da un unico modello.

Come usciremo noi dalla nostra seppur incolpevole rigidità? Non eravamo consci si trattasse di questo, non sapevamo fosse proprio rigidità, non esisteva alternativa. La vita era quella e non un’altra. Al suo interno mille vie, ma il contorno non poteva essere altrimenti.

E non posso permettermi il lusso di credere che chiunque voglia davvero uscirne, ora: è molto più probabile che qualcuno voglia solo allontanarsi da tutto questo rumore insopportabile.

Penso si possa sintetizzare con “abbiamo imparato che possiamo morire”, ora che ci hanno ributtati là in mezzo, dove per lo più è cambiato poco. Vado gente che non respira pur di tornare com’era, mentre ad altri toccherà adattarsi, ma non più essere in quel modo.

Prima tutti avevamo quella forma, adesso sappiamo che si può essere altro, ci siamo espansi. Abbiamo ricevuto un dono, una specie di miracolo, che ora fa stare stretti, scomodi, alieni, derelitti, sopravvissuti, altrove.

E non sempre bene.

La morte può essere crudele, ingiusta, traditrice, ma solo la vita riesce a essere oscena, indegna, umiliante, diceva Frida. E quella di prima senz’altro poteva esserlo, lo vedo riflesso in tanti di coloro che aspirano al cammino dei granchi, quando il vero dramma in vita non era la morte, ma ciò che ti moriva dentro.


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Sono una frase, un verso, più raramente una cifra, che letta al contrario mantiene inalterato il suo significato. Un palindromo. Un’acca, quella che fondamentalmente è muta, si fa i fatti suoi, ma ha questa strana caratteristica di cambiare il suono alle parole; il fatto che ci sia o meno, a volte fa la differenza e quindi bisogna imparare ad usarla. Mi presento: Myriam Acca Massarelli, laureata in scienze religiose, insegnante di religione cattolica, pugliese trapiantata da pochissimo nel più profondo nord, quello da cui anche Aosta è distante, ma verso sud. In cammino, alla ricerca, non sempre serenamente, più spesso ardentemente. Assetata, ogni tanto in sosta, osservatrice deformata, incapace di dare nulla per scontato, intollerante alle regole, da sempre esausta delle formule. Non possiedo verità, non dico bugie ed ho un’idea di fondo: nonostante tutto, sempre, può valerne la pena. Ed in quel percorso, in cui il viaggio vale un milione di volte più della meta ed in cui il traguardo non è mai un luogo, talvolta, ho imparato, conviene fidarsi ed affidarsi.