Nell’Europa continentale del XIX secolo fiorirono varie scuole di pensiero tra gli studiosi del diritto, con divergenti tendenze ideologiche e distinte concezioni del ruolo del giurista.
Il sorgere, in particolare, della Scuola dell’esegesi in Francia da un lato e della Scuola storica in Germania dall’altro lato, ha dimostrato che l’eterogeneo Illuminismo giuridico, con i suoi portati quali la codificazione, il mito della legge ed anche i diritti naturali inalienabili, ha stimolato distinte e talvolta contrapposte risposte in dottrina.
In seguito alla Rivoluzione francese della fine del XVIII secolo, con la conseguente rottura del tradizionale pluralismo di fonti e giurisdizioni, si erano sempre più affermate le tendenze legicentriche che circoscrivevano la funzione del giurista entro un’operazione di spiegazione e chiarimento delle disposizioni normative, e quindi al di fuori di ogni operazione creativa. L’introduzione del Code civil francese nel 1804, ed in generale dei codici napoleonici poi “esportati” anche in Italia, consolidò gli orientamenti legicentrici ed esegetici nella scienza giuridica.
In questo clima culturale si sviluppò la Scuola dell’esegesi (École de l’exégèse), che raggiunse il suo massimo sviluppo in Francia tra il 1830 e il 1880, e che ebbe larga importanza anche in Italia fino alla seconda metà dell’Ottocento. Cardine di base della dottrina esegetica del diritto era il principio della completezza dell’ordinamento giuridico in uno al mito della codificazione; in ragione di ciò i giuristi di questa scuola, facendo coincidere ad esempio lo studio del diritto civile con l’analisi del codice civile, si dedicarono ad un intenso lavoro di commento del codice, articolo per articolo. La fiducia nella lettera del testo legislativo quale unica via per fornire la soluzione a qualsiasi questione giuridica, invero, derivava dall’idea illuministica di esaltazione della legge come certa e completa dimensione del diritto. Con una tale impostazione operativa, così, si ridimensionò il ruolo dei giuristi ed in particolare dei giudici, che da ricostruttori della regola informe contenuta nella pluralità delle fonti e nel diritto romano-canonico dell’età di diritto comune, passarono a rivestire la posizione di asettici applicatori del dato positivo del diritto, frutto della volontà popolare.
Restando fedeli al testo codicistico, i giuristi francesi come il Merlin, il Duranton, il Troplong, tendenzialmente evitavano la formulazione di costruzioni teoretiche generali, e infatti il genere letterario più in voga in quel periodo era il commentario, malgrado alcuni autori si fossero comunque richiamati ai princìpi di diritto naturale nei propri scritti. Tra le opere di commento che circolavano in Francia, poi, ve ne furono anche alcune scritte da autori tedeschi, i quali spesso non rinunciavano ad un taglio più sistematico e teoretico nella lettura codicistica, come ad esempio fu il caso di Carl Zachariae.
La Scuola dell’esegesi in realtà si interessò non solo al codice civile ma anche al codice del commercio e al codice penale. L’influenza della cultura esegetica può cogliersi pure nella dottrina civilistica austriaca, che analizzò e commentò l’ABGB, ossia il codice civile austriaco entrato in vigore nel 1811. La dottrina austriaca, però, rispetto a quella francese si avvaleva non solo dei testi codicistici ma anche delle precedenti raccolte di leggi sovrane, dei princìpi generali del diritto naturale, delle nozioni comuni e degli elementi costitutivi di ogni singolo contratto di volta in volta analizzato.
Il metodo esegetico ottocentesco in linea di massima è sempre stato associato ad un modo d’indagine asettico. La dottrina odierna descrive la Scuola dell’esegesi come una corrente di burocrati del codice, intenti a fare continue affermazioni di rispetto per la lettera della legge e per la volontà del legislatore, tanto da attirarsi in alcuni casi la critica di esser stati succubi della norma codicistica. Per giungere dalla materia prima della disposizione legislativa al prodotto finale della norma, però, occorreva pur sempre mettere in moto il processo mentale di “interpretazione”, malgrado alcune correnti di dottrina illuminista parlassero di applicazione della legge come operazione meccanica e sillogistica, e malgrado una parte della letteratura sviluppatasi intorno al broccardo “in claris non fit interpretatio” contestasse il carattere ineliminabile dell’interpretazione.
Gli studiosi di storia del diritto, però, stanno sempre più rivalutando l’effettiva portata del lavoro degli esegeti ottocenteschi, persino di quelli francesi, poiché si sta sempre più rilevando come la Scuola dell’esegesi soltanto esteriormente non volle assumersi una responsabilità lato sensu politica, come invece avevano fatto i giuristi di diritto comune con le proprie opiniones. Nella pratica la Scuola in questione, infatti, ha utilizzato tutte le tecniche interpretative elaborate nel corso dei secoli. Secondo alcune correnti anglo-americane, in particolare, da un lato il sistema del Code Napoléonvoleva completamente fare a meno del diritto comune tipico dell’avversata e conclusa epoca d’Ancien Régime, ma dall’altro lato presentava la necessità di essere elaborato attraverso le interpretazioni dei giuristi. Questa opinione, conseguentemente, ha fatto dipendere l’importanza del ruolo d’interprete del giurista dalla stessa struttura dei sistemi di Civil law, aventi norme generali e astratte.
I giuristi della Scuola dell’esegesi, d’altronde, hanno inaugurato un vero e proprio “mos” francese d’interpretare il Codice, basato su lunghe opere di commento per ciascuna disposizione. Malgrado questa attività interpretativa, i giuristi francesi furono spesso salutati come dei tecnocrati custodi dei princìpi di completezza e di organicità del testo codicistico, dovendo seguire le richieste della cultura ideologica e delle opportunità politiche del loro tempo. La versatilità culturale della Scuola dell’esegesi francese si manifestò anche nella capacità di dialogo tra la dottrina e la giurisprudenza, anzitutto a partire da Philippe Antoine Merlin, consigliere di Napoleone e poi Procuratore generale presso la Cassazione. Questo dialogo si realizzava in modo fluido ma senza grande visibilità all’esterno, giacché i tribunali francesi del periodo esegetico mostravano di applicare il sillogismo giuridico pur nella piena libertà di motivare. Da questo processo ambiguo, in realtà, la dottrina iniziò a sistematizzare gli indirizzi giurisprudenziali.
Al di là del grado effettivo di coerenza interna, la Scuola dell’esegesi si posizionava nel panorama culturale del positivismo giuridico con le connesse istanze di certezza del diritto, e con una intensa adesione al processo di codificazione. Sul fenomeno della codificazione si è espressa pure un’altra corrente di pensiero, la Scuola storica, questa però con un’ottica critica verso il carattere statico e limitativo della riduzione del diritto in un mero testo codicistico.
La Scuola storica, attestata su posizioni opposte a quelle dell’indirizzo esegetico, ebbe il suo centro primario in Germania con il suo iniziatore Gustav Hugo, e il suo più grande esponente Friedrich Carl von Savigny, giurista positivista che partiva appunto dal diritto “dato”, e che riteneva che le università dovessero occuparsi seriamente del diritto positivo, formando giuristi capaci di affrontare le sfide delle nuove economie capitalistiche della Germania e degli altri Stati liberali, attraverso la padronanza dei raffinati concetti giuridici.
Secondo la Scuola storica tedesca il diritto non derivava tanto dalla natura umana, come volevano i giusnaturalisti, bensì dalla storia di ogni popolo, ed in particolare dalle sue forze latenti, riassunte nell’espressione “Volksgeist”, “spirito del popolo”. Una tale terminologia però non deve far pensare alle filosofie democratiche, anzi, la scuola in questione sposò tesi aristocratiche, conservatrici, elitarie, e nelle proprie attenzioni scientifiche predilesse la consuetudine più che legge, quale fonte del diritto. Per il Savigny e per i suoi seguaci, infatti, il popolo non si esprimeva in modo diretto ma soltanto per il tramite dei giuristi, che erano visti come gli unici soggetti tecnici capaci di intendere che cosa il popolo stesso avesse prodotto tramite gli usi. I giuristi avrebbero così il compito importantissimo di rendere attuale il diritto proprio del popolo, e per far ciò essi dovrebbero essere anche degli storici e ricostruire la letteratura giuridica della propria nazione. Guardando alla storia, pertanto, gli storicisti finirono per esaltare il diritto romano, in quanto gli studi del diritto germanico antico agli inizi del XIX secolo erano ancora in una fase poco sviluppata.
Nella prima parte dell’Ottocento la scienza giuridica era immersa in un clima complesso, in cui alla esaltazione dello strumento codicistico funzionale al cambiamento e all’ordine della realtà, poi, si contrappose un indirizzo opposto, che abbandonava appunto le idee antistoriciste degli illuministi per orientarsi verso il recupero delle tradizioni nazionali, in un’ottica avversa tanto al mito del legislatore saggio e virtuoso quanto al carattere insostituibile delle codificazioni. Questo clima fu propizio per lo strutturarsi della Scuola storica, nella sollecitazione della scienza giuridica ad evidenziare l’importanza del diritto tradizionale del popolo tedesco, e a ricostruire correttamente le fonti attraverso un innovativo metodo filologico. Il Savigny, infatti, da un lato sostenne la storicità del diritto in quanto parte delle radici della società e della civiltà, dall’altro lato propose una visione ordinata e sistematica di quella tradizione. Mentre le correnti giusnaturaliste e illuministe avevano criticato le consuetudini quali fonti del diritto, egli volle proporre dei criteri razionali e unitari per interpretarle, criteri da rintracciare nella romanistica.
Le fasi del pensiero del Savigny furono sostanzialmente due: la prima in cui pareva aderire alla tesi razionalista che individuava nel diritto privato il diritto per eccellenza garante delle libertà individuali; la seconda in cui egli perse l’originaria fiducia verso la centralità del legislatore. In quest’ultima fase egli esaltò come insostituibile la funzione della scienza giuridica quale fonte idonea ad inquadrare, e ad ordinare, la molteplicità e la frammentarietà delle norme che componevano il diritto della tradizione popolare, ossia il “Volksrecht”.
In questa visione, pertanto, la scienza giuridica rappresentava lo strumento capace di conciliare il rispetto della tradizione con le esigenze della razionalità, poiché riusciva a scolpire l’unità astratta degli istituti e al contempo a plasmare al loro interno il diritto della tradizione, aggiornandolo e adeguandolo continuamente alle mutevoli necessità sociali. Per il Savigny gli esaltatori dei codici moderni commettevano l’errore di definire un contenuto fisso e statico della disciplina degli istituti, privando il diritto di quel collegamento con i dati vitali della realtà. Da qui partì la sua opposizione alla codificazione e la sua polemica con il Thibaut, il quale proponeva invece la redazione di un codice civile unico per tutti i territori germanici, visto come strumento funzionale al conseguimento della unificazione politica degli stessi. Il Thibaut, al contrario del Savigny, non prestava attenzione alla tradizione, e infatti propose un’idea di codice slegato da ogni rapporto con la complessa tradizione di ciascun territorio germanico, ed anzi articolato secondo un ordine matematico-razionale, di stampo strettamente giusnaturalista.
L’indirizzo metodologico savigniano, quindi, era composto tanto dalla componente storicistica per la imprescindibile connessione del diritto con la società, quanto dalla componente concettualistica e sistematica per una lettura scientifica ed organica dell’ordinamento, anche attraverso le riflessioni circa i concetti di rapporto giuridico, istituto giuridico e sistema. Da questa seconda componente prese le mosse un peculiare orientamento di ricerche che si riallacciava pure ai versanti razionalisti della dottrina giuridica.
Il principale esponente di questi peculiari studi fu il Puchta, descritto dalla storiografia come un grande esponente della Scuola storica, ma anche come l’iniziatore della cosiddetta “giurisprudenza dei concetti” e degli studi sulle interconnessioni logiche tra le norme, nonché come scienziato della Pandettistica, la corrente che nella seconda metà del XIX secolo dominò la scienza giuridica in Germania e in altre zone dell’Europa, e che aveva come oggetto di studio il Digesto giustinianeo. Secondo l’orientamento di pensiero in questione, tra i cui esponenti si può ricordare anche il Windscheid, l’ordinamento giuridico è un sistema completo e chiuso, e il compito del giurista consiste nella ricerca di una soluzione già presente nel sistema medesimo, la cui logicità era vista come garanzia di giustizia. L’orientamento pandettistico tedesco in seguito divenne sempre più vicino al positivismo giuridico, malgrado si distanziasse molto dalla cultura esegetica francese.
La Pandettistica ottocentesca quale diramazione dell’indirizzo storicistico, però, costruì un sistema dogmatico armonizzando fonti diverse e costruendo un diritto romano che secondo alcuni studiosi non ha mai avuto una vigenza storica. Il diritto pandettistico non era tanto quello dei codici bensì quello del sistema degli istituti, e quindi dei concetti risalenti al diritto romano, convalidati dal tempo e resi appunto sistematici dal lavoro della scienza giuridica, nel cui più recente e migliore prodotto venivano annoverati anche gli stessi codici. Alla Pandettistica fu mossa la critica secondo cui il suo formalismo, la sua insensibilità alle necessità pratiche, la fissità del suo sistema avrebbero atrofizzato l’evoluzione legislativa; proprio la medesima critica che l’iniziale Scuola storica formulava avverso il mito codicistico della Scuola esegetica.
Una creazione importante della Pandettistica tedesca fu la teoria del negozio giuridico, quale categoria utile a sussumere tutti gli atti i cui effetti risultassero dipendenti dall’elemento volitivo di chi li poneva in essere. La teoria del negozio giuridico sviluppò il punto cardine liberale dell’autonomia dei privati, e fu importante per armonizzare sistematicamente i princìpi della contrattualistica, da un lato, con quelli degli atti unilaterali dipendenti nei loro effetti dalla volontà, dall’altro lato. Altre acquisizioni fondamentali della Pandettistica furono le categorie di diritto soggettivo e di rapporto giuridico.
Malgrado la Scuola storica si fosse concentrata sul diritto privato, proponendone una sostanziale identificazione con il diritto romano per come questo era stato elaborato dalla giurisprudenza, nella prima metà dell’Ottocento non mancarono delle originali ricerche nei settori del diritto penale e del diritto amministrativo.
Nel complesso, salvo il panorama giuridico della zona lombardo-veneta, l’Italia della prima parte del XIX secolo fu più recettiva verso la cultura dei giuristi francesi, e quindi verso la Scuola dell’esegesi per via delle numerose traduzioni delle opere di autori francesi, e molto poco verso le istanze tedesche dello spirito del popolo e della logica dogmatica. Le traduzioni italiane, però, presentavano una peculiare caratteristica, poiché comprendevano ricchi apparati di note aggiunte al testo con richiami al diritto patrio e alla tradizione romanistica. Durante il periodo della Restaurazione invero la scienza civilistica in Italia, oltre alla vocazione esegetica, fu artefice di riflessioni e metodologie innovative, per l’edificazione di un concetto di nazione italiana.
Verso la metà dell’Ottocento, con la maggiore circolazione delle traduzioni delle opere tedesche, in Italia si ebbe una forte componente savigniana, utile alla riscoperta della italianità attraverso la custodia dei valori romanistici. Il metodo italiano, in particolare, si evinceva dalle raffinate operazioni scientifiche dello Scialoja e del Fadda, i quali riuscirono a conciliare l’analisi sistematico-pandettistica con il dogma del giuspositivismo, che faceva derivare la primazia della legge dalla codificazione e dalla divisione dei poteri statuali.
Per tutto il XIX secolo, in generale, nelle opere dei giuristi italiani risultò prevalente l’indirizzo formalista, sia nella versione esegetica di influenza francese, sia nella versione dogmatico-concettuale di influenza tedesca. Sul finire dell’Ottocento invece iniziarono a diffondersi anche in Italia, ma senza larghi consensi, gli indirizzi sostanzialisti della cosiddetta “giurisprudenza degli interessi” del giurista tedesco Jhering (il quale invero apparteneva al ceppo storicistico), ed altri indirizzi critici rientranti nelle correnti del socialismo giuridico.