«Se rispondo solo di me, sono ancora io?»
(Emmanuel Lévinas)
Senza fondamento, l’uomo è chiamato a darsene uno, nella consapevolezza che qualsiasi fondamento si darà, questo sarà sempre all’insegna della provvisorietà, in quanto egli, come ha sottolineato Heidegger, è sempre, e ab origine, un fondamento infondato.
L’uomo scopre di essere un fondamento in-fondato perché si scopre gettato. Infatti, egli si-trova nel mondo come uno che non si è portato da sé laddove è. Egli non è, ma si-trova ad essere. O meglio, si trova ad essere senza aver scelto di essere. Non solo senza aver scelto “chi” o “che cosa” essere, ma propriamente “di” essere.
L’uomo, dice Heidegger, non è il “signore dell’essere”, ma il “pastore dell’essere”. Pertanto, l’uomo non è, ma subisce il fatto di essere. E questa è la sua fattità. Per tale ragione, egli ex-siste, cioè “sta” a partire da un fatto che lo colloca “fuori”, “altrove”. Sta fuori da ciò che lo fa stare e ciò che lo fa stare è fuori da dove egli sta. Un doppio fuori che lo es-pone.
Ma e-sistere, come ha inteso invece Lévinas, sulla scia della sua fede ebraica, può anche significare stare a partire da un Altrove in cui un altro è prima di me. A differenza dell’esistenzialismo di Sartre, Lévinas interpreta il fuori come un Altrove da cui veniamo, luogo Altro (e di un Altro) che ci precede e ci eccede. Per questo l’esistenza è, in sé, già alterità.
Quindi, le alternative sono due: o veniamo da un “altro” oppure veniamo da un “getto” anonimo che ci ha abbandonati, dal getto di un Essere che Lévinas ha definito – criticando Heidegger – come Neutro. In ambedue i casi siamo comunque costretti (o chiamati) a prenderci per mano. Esistere, allora, è assumersi. Andarsi a “ri-prendere” dal quel fondo oscuro della nostra gettatezza originaria, che, ad es., in Sartre, non è altro che il fondo di un Nulla dal quale il nostro essere è segnato, e che ritorna ogni qualvolta siamo costretti a scegliere, ripetendo il dato iniziale della nostra infondatezza.
Di conseguenza, esistere è andarsi a ri-prendere da quell’abbandono originario, dove il “perché” del nostro esserci si perde nella notte dei tempi. È questo nostro essere senza un “perché” che ci costringe a prenderci cura, cercando di trovarne uno. Pertanto, la cura è anche cura dei perché perduti!
È questo, in breve, il nichilismo preconizzato da Nietzsche, il quale ha detto che, proprio perché “manca la risposta al perché e manca il fine”, ecco che noi siamo consegnati a noi stessi, non solo al nostro essere ma anche al nostro nulla. Infatti, non possiamo non fare nostre le domande che, nell’aforisma 125 della Gaia scienza, pose l’uomo folle al mercato: “Non è il nostro un eterno precipitare? E all’indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla? Non alita su di noi lo spazio vuoto?”
E se ciascuno è consegnato a se stesso, questo se stesso – che non è dato – va costruito e progettato. Da qui scaturisce la cogenza a scegliersi. Lo ha detto bene Sartre, quando ha sostenuto che esistere è scegliere. Anzi, scegliersi. La cura è cura della scelta, come aveva già ricordato Kierkegaard.
Essere, dice ancora Sartre, significa farsi. Noi non scegliamo ciò che siamo (come fino ad ora ci ha insegnato certa filosofia da Aristotele a S. Tommaso d’Aquino), ma siamo ciò che scegliamo. E, scegliere di scegliere, non è a sua volta una scelta, ma una necessità. Quasi un peso. Non scelti, siamo chiamati a sceglierci. Scegliere di prenderci cura e curare di sceglierci! Ecco perché, qui, emerge un altro livello della cura che consiste nel prendersi cura della scelta.
Solo il credente sa di esistere perché voluto, amato, scelto e perciò creato da un Dio che gli ha donato sia l’essere, da essere, sia la libertà con cui scegliere chi essere. Ma chi non crede, sa di esistere senza che abbia scelto di essere. Non scelti, siamo dunque gettati, in balia di una libertà non scelta, e consegnati anonimamente alle mostre mani, tra l’altro fragili e fallibili. In questo senso la cura, in quanto cura della scelta, è cura della propria libertà!
In altri termini, è come se dicessimo che sì siamo liberi, solo che siamo costretti ad esserlo. La libertà, dice Sartre in L’essere e il nulla, è una condanna. Non possiamo non scegliere. È come se ci trovassimo in una stanza, liberi di muoverci, ma non liberi di entrarci. E neanche di uscire, se non nel rispetto di questa consegna originaria che, come un peso, ci vincola. La cura, allora, è rispondere a una consegna non scelta, che tuttavia facciamo nostra nel momento in cu la assumiamo. In questo senso, prendersi cura è assumersi in modo, e l’auto-assunzione è un gesto di prima e profonda responsabilità!
In definitiva, la cura, entrando sulla scena di un’esistenza gettata, va declinata in tutti i livelli menzionati sopra, in quanto essa è un rimedio alla nostra originaria mancanza di fondamento. Essa va intesa come il modo originario con cui ciascuno si prende in carico, il modo strutturale e imprescindibile con cui ognuno si va a riprendere dal niente da cui viene, cioè da quell’assenza di fondamento che lo espone alla solitudine delle proprie scelte. Infatti, chi non si prende cura di sé rimane non scelto proprio da sé. E a che serve essere scelto da un altro se non mi scelgo io per primo? Resterò non scelto anche da chi mi sceglie se non sceglierò di lasciarmi scegliere, dopo però che mi sarò scelto tramite la cura.
Per questo motivo, chi non si sceglie, prendendosi cura di sé, ricade nel baratro del niente. Meglio sbagliare, scegliendo, che non scegliere affatto per evitare di sbagliare! Anche se chi non sceglie, in fondo, sceglie, visto che ha scelto di non scegliere, cioè ha scelto di non diventare non solo e non tanto oggetto della propria cura, ma ancor più soggetto che cura.
Prendersi cura di sé è prendersi cura del modo con cui devo fare buon uso della mia libertà. Se la libertà permette la cura, a sua volta la cura redime la libertà da ogni forma di necessità. Invece, se la libertà è premessa per la cura, a sua volta la cura è il compimento della libertà.
Allora, la cura è il modo con cui diamo senso al nostro non-senso originario. La cura è una specie di antidoto al nichilismo. Essa, dopo la nascita biologica, ci permette di vivere due altre nascite: quella personale e quella sociale. La prima si realizza con la cura di sé, con la quale un uomo nasce a sé, nasce ai e dai propri occhi, ospite del proprio sguardo. E tutte le volte che si vedrà, si troverà, perché si riconoscerà.
La seconda è la nascita sociale. Essa accade quando io sono riconosciuto, accolto, raccolto, e, restituito a me, comincio a mia volta anche io prendermi cura degli altri che si prendono cura di me. Le due cure si intrecciano a vicenda in un circolo virtuoso che oggi sembra essersi invece spezzato. Se la cura di un altro nei miei riguardi fonda la cura di me per me, quest’ultima, a sua volta, mi consentirà di prendermi cura degli altri. In tal modo, se la cura di un altro per me fonda la cura di me per me, la cura di me per me mi consentirà di prendermi cura di un altro.
Aver scisso o contrapposto queste due forme di cura è uno dei punti deboli del nostro tempo, dove i legami si sono liquefatti sotto il coltello del non-senso radicale proprio di un nichilismo strisciante.
Ora, però, va detto che la cura di sè non si improvvisa. Essa è una risposta alla cura che un altro ha avuto per noi. La cura è una profonda esperienza di alterità. Per tale motivo, essa prima di essere psicologica è etica, nel significato che tale termine riveste in Lévinas.
Hegelianamente parlando, ciascuno impara a prendersi cura di sé attraverso la cura che ha ricevuto da un altro. Infatti, solo chi è stato oggetto di cura – riconosciuto e accudito – diventa soggetto che “si” cura e che cura. Qui, la cura si pone come fondamento sia della socialità che della soggettività, in un processo di interazione tra la cura che si riceve e quella che si è chiamati a dare. Come senza cura non vi è alcun Sè, così senza cura non vi è alcun legame sociale o relazione. Non vi è né soggettività né comunità, in quanto la cura, se da un lato evita il processo di desoggettivazione e depersonalizzazione, dall’altro evita l’atomismo sociale. Solo la cura è il vero collante della comunità.
La cura che riceviamo ci costringe a prenderci cura di noi per i tempi nei quali gli altri smetteranno di farlo. La cura è consegna di sé a sé. In questo senso la cura è esercizio di responsabilità, all’interno del quale nasce sia un Sé psicologicamente costituito che un Sé eticamente in debito.
Tuttavia, va chiarito che la cura di sé non va intesa come cura del proprio io, in quanto l’io non è il Sé. Nel Sé, infatti, c’è sia l’io che l’altro dell’io. Nel Sé, proprio della cura di sé, l’altro è oltre l’io. Oltre l’io, ma dentro il Sé. L’altro, prima che fuori, è l’oltre che ci portiamo dentro. È da lui che viene l’appello alla cura.
Per questa ragione, chi si prende cura di sé, non si prende cura di far nascere solo e unicamente il proprio io, ma allo stesso tempo si prende cura dell’altro che in questo Sé si trova fin dall’inizio, come contemporaneo dell’io.
Questa dinamica la troviamo espressa in un passo del Talmud di Babilonia, citato da Lévinas in Umanesimo dell’altro uomo, dove si legge che “Se non rispondo io di me, chi risponderà per me? Ma, se rispondo solo di me, sono ancora io?”.
Da ciò deriva che prendersi cura del Sè significa sia rispondere di sé a sé sia rispondere all’altro e dell’altro che è già in me. Questo comporta che la cura – nata come esperienza sociale fatta grazie ad un altro e vissuta da me per rispondere di me, assumendomi – non si esaurisce in me. La cura di sé – che non è cura del proprio io – se è resa possibile dalla cura che un altro ha avuto per me, a sua volta diventa esperienza che mi consente di prendermi cura di un altro e di tutti gli altri. Ed è qui che la cura si fa esperienza politica, sociale, comunitaria, economica, educativa, ecologica, intergenerazionale, etc.
La cura, contro il nichilismo, coniugando insieme identità (il rapporto di sé a sé) e alterità (il rapporto con tutto ciò che è altro da me) riesce e dare un senso a ciò che inizialmente un senso poteva anche non avere. Anzi, la cura si pone tra due esperienze di alterità: quella dove riceviamo qualcosa da un altro e quella dove siamo chiamati a donare (ri-donare) qualcosa ad un altro.
Se, pertanto, veniamo da un altro, e siamo fatti per un altro, allora solo la cura, facendo memoria di queste due alterità, le tiene strettamente unite tra di loro, correlandole, senza mai scinderle o contrapporle, o, peggio, senza dover ignorare l’una per tenere desta l’atra.
La cura re-introduce il senso mancante e mancato, sottraendo le cose, noi stessi e gli altri, al possibile nulla che, ab origine, ci ha visti consegnati a una vita che non abbiamo scelto, ma che noi, scegliendo, rendiamo sensata e degna di essere vissuta.
La cura, in tal modo, si pone come il fondamento mancante al nostro essere senza-fondamento originario. Essa non toglie la fragilità strutturale del nulla iniziale, ma, assumendo le fragilità contingenti che la vita ogni giorno ci mette innanzi con le sue sfide quotidiane, permette alla prima di non impedirci di esistere e di vivere all’altezza della nostra dignità, la quale consiste nel riuscire a dare un senso e un fondamento a tutto ciò che siamo e facciamo, prendendoci noi per primi per mano e prendendo per mano le vite altrui. Da soli e insieme. Insieme e da soli.
E, quando verrà la morte, ci porterà via tutto, tranne la cura che abbiamo avuto e che siamo stati. Essa sola resterà, quale testimone e matrice generatrice, in grado di suscitare, nelle future generazioni, tutte quelle forme di cura con cui evitare a noi di cadere nel nulla della dimenticanza, e consentire a loro di andarsi a ri-prendere dal fondo di quel nulla originario dal quale anch’essi, come noi prima, sono chiamati a nascere ogni giorno.
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*Articolo apparso sulla rivista di Filosofia on line Endoxa, ANNO 8, NUMERO 43, MAGGIO 2023 – CURA/INCURIA
Riflessioni straordinarie.
Che sollievo incontrare, ogni tanto, l’ Intelligenza.
“Da soli e insieme. Insieme e da soli.
E, quando verrà la morte, ci porterà via tutto, tranne la cura che abbiamo avuto e che siamo stati”: basterebbero queste parole! Grazie, Michele!