
Le foglie cadono. Ma prima si colorano
È autunno: la stagione della morte e della luce, della caduta e della lentezza, dei primi freddi e degli ultimi caldi. La stagione del grigio del cielo e degli infiniti colori della terra. La stagione in cui la natura, silente, dà la sua grande lezione di vita.
Si deve stare come d’autunno, sugli alberi, le foglie: chiedo scusa al grande Ungaretti se manometto i suoi versi, ma la vicenda delle foglie in autunno mi ha sempre offerto un paradigma esistenziale, al punto da convincermi di essere di fronte ad una di quelle “cose mute” alle quali, a detta di Franco Arminio, vale la pena puntare.
Passeggiare nell’autunno può essere edificante. Si guarda la natura spogliarsi giorno per giorno, soffrire ma con dignità, andare incontro al gelo ma con calore. Il calore dei colori: chi soffre autenticamente non ha bisogno di stracciarsi le vesti o di esternare trascuratezza estrema. Quello, come direbbe Caparezza, è «il nero lutto di chi non ha niente a parte avere tutto». L’autunno ci insegna l’equilibrio: manifestarsi così come si è e come si sta, senza negazioni e senza teatralizzazioni.
Ma c’è altro: la natura ha talmente fede nella rinascita da non temere l’inevitabile inverno, da sapersi reinventare anche quando tutto sta cambiando. E la sua coerenza, lungi da una rigida fissità, è proprio questa.
C’è una precisa dinamica dietro questo adattamento: la clorofilla diminuisce come la luce del sole, il tronco trattiene più linfa per affrontare il freddo e le foglie cadono. Ma prima si colorano: elaborano la perdita scatenando bellezza, meno hanno più danno. Perché per dare non si ha bisogno di aspettare una condizione ottimale. Perché ci sono tanti modi di cadere e uno di questi è danzare fino a terra fluttuando nell’aria con inimitabile eleganza. Perché a volte bisogna saper scomparire nel silenzio, senza pretese.
La parola autunno pare connessa sia al verbo latino “augere”, ossia “aumentare, arricchire”, sia alla radice sanscrita “av” o “au”, connessa all’idea di sazietà. E dato che da “augere” deriva anche il termine “autorità”, mi piace pensare che il potere di questa debolezza consista proprio nell’arricchire chi si ferma a guardarla, e che autorevole più di cento prediche è la gioia pura e semplice di chi non conosce che una sazietà: essere vivi, dentro e oltre la metamorfosi e la crisi.
E se sentiremo umido il sottobosco delle nostre giornate, non fermiamoci alla sensazione di fresco o di fastidio. Chiudiamo gli occhi e respiriamo a pieni polmoni: quel profumo di terra bagnata ci ricorda che dove c’è acqua, che siano lacrime oppure sudore, c’è ancora vita. E speranza. Ci ricorda soprattutto che l’umiltà, questa parola così abusata e fraintesa, è connessa all’“humus” e non solo dall’etimologia: umile è chi si fa habitat generativo e nutrimento per far crescere qualcun altro. Un albero possente è pur sempre piantato a terra e di terra si nutre.
E se, scovando tra i mucchi di foglie, incapperemo nelle spine dei ricci, continuiamo a cercare, a scoprire, a giocare: perché i ricci ci invitano ad andare oltre, per cercare la bontà dei frutti, e ci ricordano l’impossibilità di evitare rischi e ferite, salvo una chiusura ermetica nella quale restare soffocati. E soli. Ci sono esistenze graffiate dalla caparbietà di provare sempre e di abbracciare comunque: sono belle, sono autentiche.
Buona stagione a tutti.
Semplicemente bello!👍