
Ho avuto il piacere di incontrarlo questi giorni è la nostra conversazione è poi diventata una vera e propria intervista sul tema delicato e complesso e quanto mai attuale del fine vita.
Michele Illiceto è filosofo e docente di storia della filosofia presso la Facoltà Teologica Pugliese e presso il Liceo classico di Manfredonia.
Ha scritto numerose pubblicazioni e articoli su temi filosofici-teologici. L’ultimo suo lavoro – che vale la pena leggere e studiare è “Amore. Variazioni sul tema”, edito da Morlacchi editore.
Di seguito l’intervista:
Professore, come affrontare il grande e complesso tema del fine vita oggi?
Sul tema del fine vita sono tante le questioni in gioco. E tra i diversi fronti, anche se a volte c’è dialogo, per lo più c’è scontro e mai incontro. Se da un lato c’è chi dice che la vita è un dono, come ad es. i credenti, dall’altro ci sono altri affermano che è una condanna (ad es. i filosofi Sartre e Cioran). Altri ancora dicono che la vita è una semplice sfida che dura fin quando merita di essere vissuta. Sono questioni molto delicate e difficili da affrontare perché tocca gli affetti e i legami, la vita dei nostri cari e anche la nostra più intima percezione.
Nell’affrontare tali temi bisogna evitare da un lato sterili dogmatismi e dall’altro facili scetticismi come anche semplicistiche forme di “assoluto” relativismo. Come anche strumentalizzazioni ideologiche o peggio ancora politiche. Anche le diverse religioni devono avere rispetto della complessità di tali argomenti, consapevoli che la propria visione è una delle tante oggi in giro e che il confronto va sempre fatto sul piano della ragione oltre che della fede.
Secondo lei, l’uomo ha il potere di spostare la sua linea del tempo, scegliendo di morire?
Mi chiedo se possa esistere il diritto a scegliere di morire. Se possiamo cioè autoconferirci il potere di spostare la linea del tempo che segna il confine tra la vita e la morte. Se la risposta è affermativa, dovremmo però anche chiederci qual è la linea di confine al di qua o al di là della quale, in termini di dolore, si può conferire un tale diritto. Si, perché il tutto poi dipende anche dalla visione che ciascuno di noi ha del dolore e della sofferenza: del suo valore (se un valore ha), delle sua incidenza nel vissuto esistenziale. Si può quantificare il dolore per vedere se è giunto il momento di farla finita?
Può una vita visitata dalla sofferenza estrema essere ancora meritevole di essere vissuta? Si può far dipendere la dignità della vita dalle condizioni materiali o di salute in cui essa si trova? Il valore della vita vale sempre e a qualunque condizione? In altri termini la dignità dipende dalla qualità o la prima è scevra dalla seconda? E il dolore ha il potere di rendere la vita meno dignitosa? Per un credente assolutamente no.
Certo, è anche vero che non bisogna mai impedire ad una persona di morire con la dovuta dignità. Come infatti vi è la dignità del vivere allo stesso modo vi è anche la dignità nel morire. Ma può l’eutanasia essere un modo per conferire tale dignità?
O forse non è una scusa con cui la società nasconde a se stessa la propria incapacità di affrontare la morte in modo collettivo? Non è forse vero che nelle società postmoderne sempre più si muore da soli e in strutture anonime? E poi in gioco vi è un’altra grande questione: tale diritto appartiene all’individuo o alla comunità?
Per lei qual è la risposta a quest’ultima provocazione?
In questo scenario entra in gioco anche il fattore tecnologico. Infatti la questione dell’eutanasia è diventata sempre più cruciale solo nella nostra epoca ipermoderna caratterizzata dalla introduzione delle macchine nella medicina le quali consentono di tenere in vita una persona in modo artificiale e oltre le condizioni naturali. Gli addetti ai lavori ci dicono che è difficile delimitare in maniera il confine tra accanimento terapeutico ed eutanasia.
A ciò si aggiunga che il fatto che la nostra è anche un’epoca connotata da un forte individualismo che conferendo a ciascuno individuo il potere di attribuirsi e di gestire dei diritti che prima invece erano sotto il controllo della comunità, rischia anche di far passare per diritto ciò che un diritto non è.
Come si può notare sono tutte questioni difficili e molto delicate da affrontare che richiedono rispetto ma anche chiarezza, dove in gioco non sono tanto le teorie ma la vita stessa di persone concrete. Questioni cruciali alle quali non sempre vi è una risposta certa e garantita, rassicurante ed esaustiva, una risposta a portata di mano e facile da condividere.
E quando poi si passa dal campo puramente etico a quello tipico del diritto chiamato a legiferare regole e comportamenti, le cose si complicano ulteriormente, perché subentra la legittimità a trasformare un valore che si pretende universale in una legge particolare all’interno di uno Stato che si autoconferisce il potere di entrare in questioni intime e private, sia che proibisca sia che acconsenta.
Lei è a favore o contro l’eutanasia?
Personalmente da credente sono contro l’eutanasia. Perché per me la vita è qualcosa che ho ricevuto e su cui non ho il potere. Non sono padrone a custode della vita anche se è mia e a viverla sono io con questo mio corpo e questa mia singolarità. Essa me stata affidata e consegnata. Un dono che mi rimanda ad un Altro. Per me credente la vita è vocazione che si fa passione, e non come direbbe Sartre, “passione inutile” sempre pronta a trasformarsi in un peso o in un gioco. Per me la vita non è solo un “problema” caratterizzato da fragilità e limite, ma ancora più è un “mistero” che rimanda ad un’alterità che mi trascende e che rende la vita stessa indisponibile. La vita è un dono che si fa dono anche nel momento del dolore. Tra mille difficoltà e tra mille incertezze. Tra mille titubanze e tra mille dubbi!
E lei è proprio sicuro che sia così?
Non sono credente per convenzione o per abitudine. Ci ho ragionato sopra, ho dubitato e ho cercato, e alla fine ho scelto di diventare credente, decidendo di esserlo fino in fondo, consapevole che la fede a volte costa e anche molto.
Ho scelto di essere credente anche per dare una risposta al dolore che non è mai inutile, ma che, nell’ottica della fede, anch’esso a suo modo ha un suo senso. La mia visione cristiana mi impegna a vivere fino in fondo la vita anche quando la sofferenza la attanaglia e la rosica, la scalfisce e la demolisce, come ci insegna l’esperienza di Giobbe o la stessa vita di Gesù di Nazareth.
Lei, che d’altronde ha sentito sulla sua pelle il peso del dolore, crede che la fede può essere rimedio al dolore?
La fede non elimina il dolore, ma gli conferisce un senso, difficile da spiegare, e, forse, anche da accettare, ma che comunque ti rende libero di accettarlo per trasfigurare la realtà attraverso la mistica della croce. E ciò non accade per pura consolazione, ma per donazione.
Difficile, certo, ma la visione della fede mi apre ad un orizzonte che trascende l’immediata percezione della sofferenza come una sconfitta o un abbandono. Quasi una cosa inutile che rende la mia vita meno dignitosa.
Tuttavia, pur essendo contrario all’eutanasia, non posso imporre la mia visione di credente a chi non è credente come me. Non posso infatti pretendere che chi non ha la visione trascendente della fede – la quale trasforma il dolore da scacco alla vita in una partecipazione mistica alla redenzione di Cristo – accetti come me di soffrire in una condizione di fine vita che toglie senso all’ultimo tratto di questa nostra difficile esistenza. La questione riguarda la possibilità o meno di dare un senso al dolore che in sé un senso non ha. E’ tutto qui il problema che nessuna legge potrà mai risolvere.
Perché?
Proprio a causa di tale problematicità, forse non è sbagliato dire che lo Stato non può impedire ad ogni individuo di avere una sua visione della vita e della morte. E’ solo in nome della laicità dello Stato e non del valore che l’eutanasia potrebbe avere in sé, che allora penso che sia giusto che ci sia una legge che lasci ad ogni singolo cittadino, in base alla propria visione della vita – atea o religiosa che sia – la responsabilità di fare i conti con la propria coscienza, riconoscendo il diritto di decidere su come vivere l’ultimo tratto della propria vita.
Anche se lo Stato non deve mai avallare una “cultura di morte”, non so se sia giusto sostenere che uno Stato si possa sostituire alla responsabilità che ciascun individuo è chiamato a esercitare nella propria coscienza o, al limite, con i propri familiari.
E i credenti dove sono in tutto questo?
In un tempo in cui la società italiana si va scristianizzando sempre più, i credenti, se vogliono che la propria visione religiosa del mondo, della vita e della morte, come anche del dolore, diventi patrimonio condiviso da tutti e sia contagiosa nelle coscienze dei singoli, non devono tanto preoccuparsi di trasformare in leggi dello Stato i valori in cui credono. A loro resta solo il campo della testimonianza dove possono con la vita e con l’esempio rendere ragione di ciò in cui credono, pagando di persona il prezzo di essere anche in minoranza.
In una sola battuta, che cosa direbbe oggi allo Stato laico?
Accetto il principio che uno Stato laico abbia il diritto di lasciare liberi nella loro coscienza gli individui di decidere sul proprio fine vita, ma non sono d’accordo che l’abbia fatto!