«Non credete alle favole, erano vere!»

(Stanislav Jerzy Lec)

C’era una volta un bosco incantato dove vivevano tutte le parole non dette.

Era un bosco di disordine colorato, dove al sole veniva facile creare ombre e nascondere significati, perché lì tutto faceva finta di essere lasciato al caso.

Gli abitanti del bosco, le parole, amavano fingersi dimenticate e passavano lì, indisturbate, le loro giornate. Non erano tristi e non erano felici, erano ricche. Ricche di attesa e speranze, perché erano parole fiduciose: loro sapevano di esistere e sapevano che prima o poi qualcuno si sarebbe ricordato di loro.

Un giorno più strano di altri giorni alcune lettere si alzarono di buon’ora e si ritrovarono insieme a fare colazione: erano solo in quattro, il numero perfetto per un piccolo tavolo sistemato per bene sotto un albero di melograno.

A prese un caffè, L scelse una tazza di latte bianco, D non voleva mangiare perché veniva da Domodossola e lì i cornetti non erano buoni e si chiamavano brioche, un’altra A prese anche lei un caffè.

Mentre chiacchieravano amabilmente fra sbadigli e lentezza mattutina, si accorsero che poco più in là c’era una tavolata più grande di loro simili: uguali, ma differenti.

A quel tavolo E mangiava cereali, U era in fase decisionale, G versava il the anche ad un’altra E, N, I ed O scartavano biscotti allo yogurt.

Ad un tatto A, dal piccolo tavolo, sobbalzò:

«Guardate! Disse a gran voce. A quel tavolo grande c’è GENIO».

Ed L, D e A dovettero darle ragione. Sommarono i partecipanti alla colazione vicina e videro che la loro commensale aveva proprio visto giusto. C’era un GENIO!

Poi, però, D notò un po’ di scompensi e allora si mise a pensare. Rifletté e ben presto svelò l’arcano:

«A, L, A! Ma siete distratte! Avete dimenticato che a quel tavolo, con GENIO, ci sono anche E ed U. Siete state molto indelicate!».

E tutta concitata si mise a cercare un modo per correre ai ripari.

Frattanto A, L, A, disattente come sembravano, ma solo sembravano, cominciarono a muoversi nervosamente scambiandosi di posto continuamente. Si ritrovarono così sedute vicine A ed L, un posto vuoto e l’altra A a chiudere la fila.

D intanto ruminava, ruminava, ruminava: doveva risolvere l’indelicatezza delle sue compagne. Si accomodò sull’unica sedia rimasta vacante ed esclamò:

«EU-GENIO, ecco! Non è solo GENIO, è EUGENIO!».

E fu allora che le lettere del tavolo più lungo, finalmente rincuorate per essere state tutte riconosciute risposero:

«Buongiorno! Ma voi siete ALDA!».

Ops, improvvisamente si era accesa la luce su quella giornata strana: EUGENIO ed ALDA, ALDA ed EUGENIO. Undici lettere a colazione, due nomi, un’infinità di parole.

Sorrisero, ma di colpo giunse un gran frastuono, iniziò a tuonare. Il bosco incantato fu scosso da un fragoroso tremore, era il terremoto:

«Aiuto! Aiuto! Il bosco trema! Stanno venendo a prenderci!», urlarono tutte le parole del bosco, facendo eco alle loro guide mattiniere, che videro spargersi ovunque i pezzi di quei bellissimi tavoli a forma di bomboniera.

Ed era proprio così, dall’universo parallelo di coloro che le avevano dimenticate nel bosco incantato, si era risvegliata d’improvviso una mente. Doveva essere accaduto qualcosa, da quella parte: un agente esterno, una variabile impazzita, doveva essere entrata di soppiatto a destare i fattori sopiti.

Fu così che EUGENIO ed ALDA, insieme, guardarono terrorizzati le loro casette. Avevano lasciato a riposare i loro figli ed avevano visto spalancarsi le porte delle loro abitazioni, sotto la mano di un vento forte, eppure benevolo.

I lettini iniziarono a volare verso il cielo ed ogni loro letterina fu svegliata piano piano, in assoluto contrasto con il terremoto di poco prima: delicatamente, una Mano Invisibile le adagiò per aria, mischiandole per ristabilire un nuovo ordine, che fino ad allora nessuno aveva mai visto.

Era il miracolo di una nuova nascita, parole dimenticate e rimescolate avevano dato vita ad una storia antica, o forse no, non è dato saperlo. Recitava così:

«Meriggiare pallido e assorto

In fuga

Svanire

Se solo scomparissi

Spazio, spazio, io voglio tanto spazio

Il giorno lo guadagno con fatica

E nessuno m’aiuta».

(Eugenio Montale ed Alda Merini riletti all’unisono da Nicola Dellegrazie).

A fare da cornice, un panorama che pian piano si dirigeva verso la sera: il cielo più scuro, uno spicchio di luna nella sagoma di un uomo con il cappello: avevano chiamato un pittore a dipingere lo sfondo. C’era un amico in più, era RENÉ, RENÉ MAGRITTE.

Fine.


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Sono una frase, un verso, più raramente una cifra, che letta al contrario mantiene inalterato il suo significato. Un palindromo. Un’acca, quella che fondamentalmente è muta, si fa i fatti suoi, ma ha questa strana caratteristica di cambiare il suono alle parole; il fatto che ci sia o meno, a volte fa la differenza e quindi bisogna imparare ad usarla. Mi presento: Myriam Acca Massarelli, laureata in scienze religiose, insegnante di religione cattolica, pugliese trapiantata da pochissimo nel più profondo nord, quello da cui anche Aosta è distante, ma verso sud. In cammino, alla ricerca, non sempre serenamente, più spesso ardentemente. Assetata, ogni tanto in sosta, osservatrice deformata, incapace di dare nulla per scontato, intollerante alle regole, da sempre esausta delle formule. Non possiedo verità, non dico bugie ed ho un’idea di fondo: nonostante tutto, sempre, può valerne la pena. Ed in quel percorso, in cui il viaggio vale un milione di volte più della meta ed in cui il traguardo non è mai un luogo, talvolta, ho imparato, conviene fidarsi ed affidarsi.