«Da Pier le tegno; e dissemi ch’i’ erri
anzi ad aprir ch’a tenerla serrata,
pur che la gente a’ piedi mi s’atterri»
(Purgatorio IX, vv.127-129)
Il canto nono è un canto di passaggio: dall’antipurgatorio si entra nel purgatorio vero e proprio e, come spesso succede, Dante ricorre ad una sorta di pausa narrativa per prepararci al nuovo salto, al cambiamento di tono e di stile.
La prima parte del canto è dedicata ad una lunga descrizione del sonno di Dante che sogna di essere rapito in volo da un’aquila dalle penne d’oro. In realtà, il sogno è prefigurazione dell’intervento di santa Lucia, allegoria della grazia illuminante, che conduce il poeta fino alle soglie del purgatorio.
Dante si riscuote spaventato e, rincuorato da Virgilio, vede un essere così luminoso da rimanerne accecato: è l’angelo che ha le chiavi di ingresso nel purgatorio, una d’oro – allegoria della grazia divina – e l’altra d’argento – allegoria della scienza che i confessori dovrebbe imparare a ben applicare (magari senza ricorrere alla vendita di indulgenze…) per farsi così strumenti indegni della misericordia del Padre.
La seconda parte del canto insiste dunque nella descrizione del rituale di accesso. In primo luogo, Dante deve superare tre gradini di tre colori diversi: i commentatori li riconducono ai tre momenti del sacramento della riconciliazione (ché così si dovrebbe chiamare e non, riduttivamente, “confessione”). Il primo momento è quello della contritio cordis (la contrizione del cuore, nella consapevolezza dei propri peccati) e corrisponde al gradino di un marmo bianco in cui specchiarsi, proprio come avviene nell’esame di coscienza. Il secondo momento è quello della confessio oris (la confessione orale, in senso stretto), qui la pietra è scura e incrinata in lungo e largo, a esprimere lo spezzarsi della durezza dei cuori. Infine, il terzo momento, la satisfactio operis (la conversione che si traduce in opere buone e nuove), da cui il colore del gradino, rosso come il fuoco della carità.
L’angelo inciderà anche sette P sulla fronte di Dante, chiara metafora dei sette peccati capitali da cui purificarsi spiritualmente nell’ascesa delle sette cornici del purgatorio. Quindi, la porta, non senza un pensate cigolio, si apre: subentrerà l’armonia del Te Deum, il peggio è alle spalle, la vera salita può avere inizio.
Ora, la terzina che ho scelto per un breve spunto di riflessione è quella in cui l’angelo rievoca la consegna di Pietro:
«Da Pier le tegno; e dissemi ch’i’ erri
anzi ad aprir ch’a tenerla serrata,
pur che la gente a’ piedi mi s’atterri»
(Purgatorio IX, vv.127-129)
Vale a dire: nel consegnarmi le due chiavi del purgatorio, Pietro mi disse di errare piuttosto nell’aprire in eccesso la porta che nel tenerla chiusa; ad una sola condizione: che chi intenda entrarvi, si prostri fino a terra, mostrando dunque una autentica contrizione.
Mi piace. Mi piace davvero questo Dio in cui crede Dante e spero tanto che, comunque lo si voglia chiamare e concepire, sia un Dio di così ricca compassione, più pronto a dare che a ritenere, a concedere invece che a rivendicare. Proprio come un padre: che non può smettere mai di amare i suoi figli, non può smettere mai di essere padre. Anzi: di essere madre.
Perché c’è maternità nella paternità come paternità nella maternità. Propriamente, nella misura in cui si è generanti: datori, altori di vita, genitori per sempre, anche quando non si è genitori biologici. Perché non si smette mai di dare la vita ai e per i propri figli, biologici e non. Non si smette mai di generarli e rigenerarli nel perdono, anche e proprio quando non lo meritano. Proprio come accade pure a noi, tutte le volte in cui avvertiamo di non meritare il perdono.
Così deve essere il Dio in cui crede Dante. E così mi piace sperare che Egli esista. Altrimenti toccherebbe inventarlo!
Papa Francesco: «Come sembra difficile tante volte perdonare! Eppure, il perdono è lo strumento posto nelle nostre fragili mani per raggiungere la serenità del cuore. Lasciar cadere il rancore, la rabbia, la violenza e la vendetta sono condizioni necessarie per vivere felici».
Kahlil Gibran: «Il nostro Dio nella sua misericordiosa sete berrà tutto di noi: la goccia di rugiada e le lacrime».
W. Longfellow: «Essendo tutti creati dalla stessa polvere, dobbiamo essere misericordiosi oltre che giusti».