Mamma è una parola semplice…
Mamma è una parola semplice. C’è chi la ricollega a mammella, spalancando subito l’universo della nutrizione, del dono, del sacrificio, dell’abbondanza, della provvidenza che salva dalla sussistenza chiunque venga al mondo. C’è chi, semplicemente, la ritiene un collage di sillabe, le prime semplici sillabe che un infante va blaterando, nel tentativo di imparare a parlare.
Mamma è una parola che libera, che riempie il cuore, che consola, a volte. In passato è stata una parola opprimente, perché è diventata il senso unico dell’essere donna, la sola via per sentirsi persone realizzate, all’altezza della società. “Se non fai figli, che donna sei?”. Una mentalità funzionalista, che per secoli ha schiacciato il sesso femminile nelle sue funzioni, che ha trattato l’utero come vuoto da riempire e che ha visto nella donna l’essere ricettivo per eccellenza rispetto alla potenza maschile, creata solo per accudire e proteggere. Dunque, per starsene chiusa in casa. Mentre il pubblico e il sociale restavano missione del marito.
Non so quanto le cose siano realmente cambiate. Di recente mi è stato detto: “hai più di trent’anni, vorrai farlo un figlio prima o poi…?”. E mi fa paura anche un certo modo di cambiarle, poiché alcune battaglie pretendono di risolvere tutto saltando nell’estremo della neutralizzazione e dell’indifferenziazione dei corpi, dell’annullamento delle differenze, della banalizzazione dell’utero, magari mediante l’affitto.
Una cosa è sicura: che si battagli, che si scelga di subire ancora il patriarcato, o che si salti da una parte all’altra a seconda della convenienza, tutti proveniamo da lì, dall’utero, da quello spazio vocato alla formazione della vita, da quel vuoto che chiede anzitutto di essere guardato e accolto.
Una cosa ogni madre dovrebbe ricordare al mondo: il rispetto di questo vuoto, metafora dello spazio in cui ciascuno può fermarsi a respirare, per rigenerarsi e rinascere, del silenzio propedeutico a ogni decisione, che è sempre una recisione dolorosa, come quella del cordone ombelicale. E poi dell’apertura, dell’accoglienza, della libertà di non tenere a sé, che libera a propria volta l’altro, perché lo lascia andare, lo lascia partire. Partorire è lasciar partire, è non appropriarsi, non possedere, non sostituirsi, non proiettare, non soffocare. Ed ecco, allora, che la maternità si stacca dal banale funzionalismo e diventa un simbolo per l’umanità. Perché ogni persona, uomo o donna, è chiamata a tutto ciò.
Per cui, al di là delle ipercelebrazioni per la festa della mamma, confezionare spesso con stucchevole retorica, l’augurio più grande è che ogni madre riesca ad incidere il pubblico, il sociale, l’economia, la politica, la religione, la scuola col vuoto che si porta dentro, educando ciascuno alla libertà vera di non possedere. Poiché è questo che genera realmente alla vita e permette di generare, al di là delle scelte e delle circostanze concrete. È questo che fa di un essere umano una persona compiuta, adulta, generativa, materna: autolimitarsi rispettando il vuoto, la terra di nessuno, che non è mancanza, carenza deficitaria, ma valore aggiunto che salva dalle con-fusioni, cancro relazionale di oggi.
Bello ! Semplicemente bello e vero.