
«E tu prima, Firenze, udivi il carme
Che allegrò l’ira al Ghibellin fuggiasco»
(Ugo Foscolo, Dei Sepolcri, vv. 173-174)
«Al tornar de la mente, che si chiuse
dinanzi a la pietà d’i due cognati,
che di trestizia tutto mi confuse…»
(Inferno, VI, vv.1-3).
Inizia così il canto sesto e, nel caso ci fossimo distratti, Dante torna a porre al centro della prima terzina la parola chiave del canto precedente: pietà. Ecco, pietà, non sa provare altro, il burbero padre Dante, per Paolo e Francesca, per i quali è ancora scrupolosamente evitata la parola «dannati», non è un caso se qui li chiama «cognati»…
Dante si trova ora nel terzo cerchio, dove sono puniti i golosi. Li scopre immersi nel fango, tormentati da una pioggia incessante, una sorta di fanghiglia composta da grandine, neve e acqua sporca, il tutto mentre sono dilaniati da Cerbero che, con tre bocche e con zampe «unghiate», senza sosta graffia, scuoia e squarta gli spiriti.
Non ci soffermeremo sulla loro condizione. Mi interessa più intrattenerti sulla passione politica di colui che Ugo Foscolo, nei Sepolcri, battezza con l’appellativo di “Ghibellin fuggiasco”. In realtà, Dante era un guelfo di parte bianca; in estrema e rozza sintesi: voleva che fosse riconosciuta al papa la “spada” spirituale, all’imperatore quella temporale, laddove i Ghibellini erano i principali sostenitori del potere assoluto dell’imperatore.
Ma allora perché Foscolo lo chiama “Ghibellin”? Con la libertà e l’intuizione di cui sono capaci solo i poeti, egli ci indica una chiave di lettura: Dante, persino nei confronti della propria parte politica, è stato così indipendente e tenace nel difendere le sue idee da essere individuato come nemico dai suoi stessi amici. E da essere costretto all’esilio a vita, come “fuggiasco”, con tutta la sua famiglia. Una condizione non facile.
Come dire che Dante è stato capace di essere minoranza anche quando era maggioranza: per il semplice fatto di non aver risparmiato aperte critiche ai suoi concittadini, quale che fosse il colore del potente di turno. Mai servile, mai asservito, mai disposto a compromessi di comodo.
Ora, noi sappiamo com’è andata: Dante è rimasto in esilio per un ventennio, sino alla morte, con tutta la sua famiglia. La sua fama e i meriti della sua opera letteraria gli sono valsi l’ospitalità di alcune delle corti più ricche e influenti di Italia: sta di fatto, però, che nella sua amata Firenze non è più rientrato. Neanche da morto. E sta di fatto che ha preferito libertà e verità a servilismo e facili accomodamenti.
Tutto questo in forza di una passione che non si fa serva, di un amore che si mantiene fedele a se stesso, di una forza d’animo che non si piega ai «colpi di sventura» (Paradiso, XVII, v.24).
E, prima ancora, tutto questo in forza della sua ossessione del bene, da cercare sempre e comunque, con ogni mezzo e ad ogni costo, senza morbide scorciatoie. Il bene, da cercare non per sé, ma nell’intima convinzione che non c’è valore autentico che non sia condiviso: la stella polare di tutta la sua vita, la vera musa ispiratrice di ogni sua perla.
Caro lettore, adorata lettrice, ogni riferimento all’oggi sarebbe fin troppo scontato e perciò te lo risparmio.
Solo alcune note, prima di salutarti.
Siamo nel primo dei canti cosiddetti “politici” in una sorta di climax ascendente che vedrà Firenze protagonista del canto sesto dell’Inferno, l’Italia oggetto delle filippiche del sesto del Purgatorio e la decadenza nell’Impero messa a nudo nel sesto del Paradiso.
Perché il presente e il futuro di Firenze risultano drammaticamente in declino? Perché la patria diletta è destinata ancora a lotte intestine che tanto sangue faranno scorrere? Dante lo chiede in questo canto al dannato Ciacco, che gli risponde:
«Giusti son due, e non vi sono intesi;
superbia, invidia e avarizia sono
le tre faville c’hanno i cuori accesi»
(Inferno, VI, vv.73-75).
Due giusti sono rimasti a Firenze e nessuno li ascolta. Ascoltano tutti le voci di superbia, invidia e avarizia. Il resto vien da sé: intelligenti pauca.