Una vicina di casa, il mattino dopo, li aveva trovati febbricitanti…

Ogni tanto si riduce così il pensiero: accade spesso. Mentre entra in funzione e ti combina un’idea arriva la malinconia, l’abbattimento per un qualcosa che fino allora era rimasto celato in qualche piega inattiva, a sfasciarla, demolirla se non fosse per quel poco di sostegno che potrebbe giungere da una persona con la quale si vive lo spazio comune. Non quando questa si trova nelle stesse condizioni: alienata dagli stessi problemi e prossima al collasso. Tale era Pierina e faceva contrappeso a suo marito Vanesio.

I circoli concentrici causati dal tonfo di un sasso nello stagno di solito vanno a lambire la riva affievolendosi, non come la fastidiosa inedia, l’esaurimento, la mancanza di determinazione che avviluppano prima il soggetto portatore e man mano, contagiano gli altri che gli fanno cerchia. Salta come farebbe un canguro o un lampo da una nuvola all’altra durante lo sviluppo di un temporale inaspettato.

Lui si guardava le mani intanto che aveva smesso di fumare l’ultima sigaretta … già ma quale? Se proprio accudendo a quel maledetto accenno di tosse con la medicina migliore presa dopo il martellante convincimento di Pierina, anche lei accanita fumatrice, ma di sigari toscani, lui non avesse accettato di far spola, mattina e pomeriggio dallo speziale.

Il dottore, poco incline a preparare il composto richiesto, si era poi limitato, al posto di quello, a dargli un placebo … convinto com’era che gli avrebbe più giovato, se solo lui avesse completamente fatto a meno di fumare.  L’idea della medicina era scaturita dalla fantasia malferma di Pierina la quale inibita dai miasmi, emanate da quelle accese foglie secche arrotolate, aveva creduto di far smettere per prima a suo marito quella che lei non sarebbe mai riuscita a fare, di fumare.  Erano corsi ben due volte i vicini di casa nel veder, dalle imposte semichiuse, venir fuori del fumo. Avevano creduto che qualcosa di serio stesse accadendo nel basso dei Fornaretti: succedeva quando i due erano presi dalla smania, dopo essersi scolato qualche litro di malvasia bianco e altrettanto di Troia Nero e si mettevano a fumare senza consumare zolfanelli … almeno uno solo per l’inizio.

Il composto che lo speziale gli preparava era a base di bicarbonato di sodio, citrato e zucchero. Dopo più di sei mesi a Vanesio a furia di ingerire quell’intruglio gli era venuto il mal di stomaco ma non era riuscito a ridurre lo spreco di sigarette anzi si erano fatte più frequenti le sue apparizioni dal tabaccaio senza che lui se ne fosse reso conto.

Pierina, tra un sorso e una tirata gli faceva pantomima tanto nulla avrebbe risolto alzare il tiro piuttosto che il gomito se di fronte alla “Verità” lei avesse avuto il coraggio di guardarla negli occhi, ma non l’aveva.

Il dominio preso nei confronti di suo marito non aveva la fermezza né la costanza giacché era divenuta catarsi: liberazione di non prestare attenzione all’altro se non per abitudinario arbitrio. Falsamente accusatorio diveniva il suo plauso verso il marito il quale confondeva ulteriormente, frastornato com’era, da quel costante trangugio a prestar attenzione agli avvisi spavaldi della moglie.

Si stava scrutando le mani Vanesio, dopo l’ennesima sigaretta e aveva notato il color rame, or più evidente, dell’indice e del dito medio di una e dell’altra mano. Gli sfuggiva ahimè quel suo pallido colore del volto che s’immaginava roseo poiché tale era stato quando lui era solo bevitore ma dal giorno che aveva preso gusto a respirare i miasmi di quei sigari toscani esauriti da Pierina e si era messo pure lui a fumare, men che acqua sotto il ponte, più fumo nei polmoni di Vanesio era scorso.

L’idea vacillava mentre il pensiero si manteneva ben distante dal darle una mano e questa, senza sostegno, si piegava come un giunco al vento, anzi svaniva.

A suo tempo era stato un bravo artigiano Vanesio e ne aveva messe in piedi d’idee tanto che la sua manodopera aveva attecchito in modo tale da esser il più ricercato e ben pagato nell’ambito in cui egli operava.

Era maniscalco ma uno di quelli che, in fatto di cavalli e del modo più adeguato di calzarli, era l’unico e il più riconosciuto della zona. I ferri che Vanesio forgiava nella sua bottega, dopo aver preso misura di zampa e stazza dell’animale, erano così perfetti tanto da esser considerati come opera d’arte.

E tale era divenuta la sua fama: non si era limitato solo a ferrar cavalli ma con le tante idee forgiava dei veri capolavori di serrature e di altri complicati arnesi da impegnarlo per la maggior parte delle ventiquattrore, sia del giorno sia della notte…

Fu durante quella sua ascesa che egli conobbe Pierina. Era giunta col padre una volta, seduta sul calesse a ferrare il morello che lo trainava. Bastò che i due si sbirciassero e subito si affacciò l’attrazione sia da una parte sia dall’altra. Il padre di Pierina vide a un tratto la figlia con le gote rosse e pensò al fuoco della forgia, dove lei, per gioco, si era messa a girar manovella ma delle occhiate furtive scorse tra i due egli non ci aveva fatto caso. Il padre, un omone di larga stazza, solo se rimaneva zitto non incuteva timore altrimenti con il suo vocione da orco ne lanciava eccome di batticuori poiché ogni sillaba che lui emetteva sembrava uscisse da una caverna piuttosto che da ugola umana. Chi lo conosceva asseriva che il suo modo di parlare, quella voce scavata, porosa e cupa, era a causa dei sigari che lui fumava e mai nessuno, di quelli che l’avevano conosciuto, se l’era mai ricordato senza quel mozzicone acceso tra le labbra.

Aveva messo insieme una piccola fortuna Girolamo adoprando mezzi poco convenzionali ma era pur sempre un mediatore anche se era solito scambiare tale figura con quella del venditore diretto, manovrando come se il prodotto da lui trattato fosse suo e non del vero interessato.

Si notava spesso in giro durante la bella stagione sempre a cavallo del suo calesse trainato dall’animale di turno, scelto di volta in volta tra quelli che parcheggiavano nella sua stalla. Gli era deceduta la moglie, dopo una caduta dalle scale. L’incidente accadde in casa cui seguì, con molta discrezione e senza scalpore, il funerale. Erano rimasti in due, senza contare i cavalli s’intende, Girolamo e Pierina Santucci. Abitavano in quella casa con poche finestre senza le quali era a loro impedito il dolce panorama pregno di ulivi. Pure il sole era interdetto a far capolino nelle stanze di casa Santucci dando così modo all’umidità e alle ragnatele di dipingere un quadro non rispondente alla fama di quella terra di Puglia: calda, luminosa, armoniosa e con aria fragrante.

Dopo il loro primo fatidico incontro, Pierina e Vanesio si erano incontrati più volte e sempre nella bottega di maniscalco, ora per ferrare un cavallo, vuoi per qualche attrezzo da riparare ma il più delle volte erano le scuse a portar Pierina da quelle parti. Suo padre aveva capito lo sprone che aveva portato sua figlia verso quel recapito e nulla poteva col suo vocione per rimetter dritto quel che pareva storto: gli mancava la fermezza per farlo con Pierina, unico sostegno rimastogli. Era passato qualche tempo dalla morte di sua madre e Pierina, ormai trentenne, si era decisa a parlarne col genitore: di lei e di Vanesio il quale aveva raggiunto i quarantacinque, ma in effetti, ne dimostrava qualcuno di più.

Come il funerale della madre, avvenuto in modo riservato, pure il matrimonio dei due aveva seguito la stessa norma che se non fosse stata necessaria la presenza dei testimoni avrebbero partecipato solo tre persone: Vanesio, Pierina e Girolamo, suo padre.

Era una mattina di gennaio, un inverno rigido come non si era mai visto. Vanesio si guardava le mani, le stesse creative dita che avevano forgiato e messe in opera le tante idee che gli erano affiorate dal cervello. Ora se le vedeva di bronzo, dal colore che la nicotina le aveva dato, né tanto la testa gli spiegava il perché di quel mutamento.

Era solito pensare alla sua vita ma la mente si perdeva, offuscata dalle nebbie causate dai sigari toscani, consumati da Pierina, dalle nutrite sigarette che lui stesso fumava, dal copioso alcool ingerito e quando questa si spingeva oltre, dai fumi dell’antracite, scaturiti dalla forgia quando ancor lui lavorava.

E poi … un persistente mal di stomaco che non lo aiutava certo a viver la giornata come lui voleva: fumarsi in pace qualche sigaretta accompagnata da qualche bicchiere di vino.

 

Se ne stava lì in disparte mentre Pierina girava per casa brontolando per qualcosa che le sfuggiva. Era solita lamentarsi ma nulla “cucinava”, l’avrebbe fatto se fosse stata una pentola, messa sul fuoco a bollire il contenuto. – Pierino, hai visto dove ho messo i sigari?

– Sì … li hai fumati! – e ancora, – ma se ce ne hai uno acceso tra le labbra …

– Cercavo gli altri … quelli ancora da fumare-, e pensierosa, – vuoi veder che li ho finiti? …

– Mia cara … in questa casa si beve assai …

– Che cosa centra il bere con i sigari che non trovo-, rispose la moglie irritata da quella stupida osservazione.

– Centra … eccome, poiché tra un fumo e l’altro e la mancanza di luce qui non si vede più nemmeno … dove uno ha lasciato la testa … -Quella tua è alienata, trasferita chissà dove – rispose Pierina.

– La moglie, per diventar tale, giura sempre, davanti al prete, di seguire il marito nella buona e nella cattiva sorte … o che tu, qualche volta, la lasci a casa la tua testa? …

– Pure quando fai dello spirito, rimani un uomo delizioso … perciò ti ho sempre seguito … anche tu s’è per questo …

– Sì, lo so mia cara … mi hai insegnato tante cose … talmente tante … da non saperle elencare … così conciato come sono.

– Non sei mai stato un cialtrone … Dio ti benedica! Se solo avessi avuto sentore che tu lo fossi stato … eh no … non ti avrei mica preso per marito.

– Meno male che ho saputo fingere con te … io stesso non avrei mai creduto di saper recitare una simile parte.

– Non ti sarebbe servito a nulla, avresti avuto a che fare con la mia sagacia. Non occorre mentire quando ci si vuol bene … nevvero caro?

– Se fosse stato così … che cosa credi che saremmo rimasti insieme per tanto tempo? … -, rispose Vanesio a malincuore con quel bruciore di stomaco che, intanto, si era accentuato e gli procurava delle insopportabili fitte. Queste si leggevano, sotto forma di smorfia, sulle sue labbra chiuse mentre stringevano la sigaretta accesa. Mai gli era venuta la nausea per quel dannato fumo che abilmente faceva uscire dalle narici carnose e piene di annessi cutanei: gli fuoruscivano alla maniera di setole dal manico di un pennello da barba.

– Questa volta gli dirò basta a quel ciarlatano di un dottore … più che giovarmi, mi fa male, quel suo preparato … e se lo fa pur pagare … non vorrei che ci metta dentro un pizzico di droga, per assuefarmi e a non farmi più smettere di fumare.

– Se vorrai smettere, dovrai farlo da te e senza l’aiuto dello speziale … lui non ha alcun interesse a farlo … se non quello di venderti il preparato.

– A che varrebbe poi smettere di fumare se dovrò comunque respirare i tuoi sigari? Se almeno decidessimo, di farla finita insieme allora sì che sarebbe un’idea.

– Devo confidarti che queste idee che ogni tanto si affacciano al tuo cervello hanno un solo indirizzo … la mia persona-, si era alterata Pierina e non voleva esser ripresa per quel che lei faceva. Suo padre le aveva lasciato una fortuna in dote e, datosi che non avevano avuto la fortuna di concepir prole, lei desiderava fumarsi pure le suppellettili piuttosto che lasciarle a chicchessia.

– Che cosa credi che io non pensi alla tua salute? … -, aveva risposto pacatamente Vanesio a sua moglie, dopo quella sua reazione. Lui la conosceva bene. Era meglio non contraddirla per non alterare il suo cattivo umore …

Questa volta però aveva innescato una mina vagante e da un momento all’altro lui si aspettava l’esplosione ma che non arrivò, anzi, per sua meraviglia si senti dire da lei: – Forse hai ragione tu, mio caro.

Fu l’ultima frase che lei pronunciò prima di alzarsi, raccattare ogni oggetto che si riferiva al vizio del fumo: sigari, fiammiferi, posa-ceneri e quant’altro le capitasse a tiro e mise tutto in un cesto di vimini. Vanesio stentava a crederci e si teneva ben distante da lei, dopo che aveva raccattato le ultime sigarette e se l’era ficcate nella tasca dei pantaloni, al solo scopo di risparmiarle dalle intenzioni di sua moglie. Questa continuò a cancellare fino all’ultima presenza, ogni minima traccia dei sigari, spalancando l’unica finestra rimasta chiusa per il freddo: voleva arieggiare l’ambiente, tale era l’intenzione. Vanesio che aveva aspettato la bomba esplodere, si rese conto che era giunto il momento poiché Pierina si era girata verso di lui e, con fare determinato, lo investì dolcemente dicendo: – Amore mio … ecco la mia risposta alla tua richiesta … io ho smesso di fumare … ora dimostrami di farlo anche tu … e con gesto ben definito, prese il cesto con il raccattato e usci di casa per raggiungere il bidone della spazzatura, dentro il quale lo versò. Nel rientrare trovò il marito ammutolito. Si avvicinò a lui e notò che aveva gli occhi umidi di pianto: lo strinse tra le braccia cercando di consolarlo. Con una mano sul capo accennò qualche carezza mentre avvertiva che il suo corpo aveva dei tremori, dei sussulti. Con le mani lui le aveva cinto la vite, affondando le dita nella sua carne, attraverso la veste di fustagno dall’odore affumicato, come insudiciato di fumo pareva lui. Stettero in quella posizione fino al mattino dopo, e in tale posa furono trovati: abbracciati. Stretti come il filo di un gomitolo di lana su se stesso.

Il solo calore dei loro corpi, però, non era bastato a riscaldarli mentre il gelo della notte, attraverso il freddo pungente a causa della finestra spalancata, li aveva quasi congelati.

Una vicina di casa, il mattino dopo, li aveva trovati febbricitanti: aveva chiamato in soccorso il medico del paese il quale aveva badato a indirizzarli al vicino ospedale, dove fu loro diagnosticata una bronchite e per lui un principio di tumore all’intestino. Si salvarono entrambi ma senza l’aiuto del fumo e dell’alcool. Fu il buonsenso di Pierina, risorto e inaspettato a prender iniziativa per uscire dall’affumicatoio poiché le sigarette e i sigari furono, se non la vera causa della malattia, nemmeno la “giusta medicina” per dilapidare una eredità, senza più eredi naturali a cui trasferirla.

(Novella tratta dal terzo libro non pubblicato: “La pazienza e la ragione”, di Salvatore Memeo)


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Salvatore Memeo è nato a San Ferdinando di Puglia nel 1938. Si è diplomato in ragioneria, ma non ha mai praticato la professione. Ha scritto articoli di attualità su diversi giornali, sia in Italia che in Germania. Come poeta ha scritto e pubblicato tre libri con Levante Editori: La Bolgia, Il vento e la spiga, L’epilogo. A due mani, con un sacerdote di Bisceglie, don Francesco Dell’Orco, ha scritto due volumi: 366 Giorni con il Venerabile don Pasquale Uva (ed. Rotas) e Per conoscere Gesù e crescere nel discepolato (ed. La Nuova Mezzina). Su questi due ultimi libri ha curato solo la parte della poesia. Come scrittore ha pronto per la stampa diversi scritti tra i quali, due libri di novelle: Con gli occhi del senno e Non sperando il meglio… È stato Chef e Ristoratore in diversi Stati europei. Attualmente è in pensione e vive a San Ferdinando di Puglia.