Ma bastevole è il miracolo della deposizione di ogni ansia da prestazione e mania di perfezionismo

“Abbastanza” è una parola insidiosa. C’è dentro il bastare di origine incerta: forse un termine latino-volgare che significa “servire da sostegno” e sarebbe collegato al latino bastum, “bastone” oppure dal greco bastázein, “portare un peso”, “sopportare”.

E in effetti quando rispondiamo, a qualcuno che ce lo chiede, che va “abbastanza” bene, stiamo comunicando una situazione incerta, indefinibile, in cui bene e male si mescolano fino alle sfumature più impercettibili. O si diluiscono del tutto creando una specie di limbo, dove non si è tristi ma nemmeno appagati. Ed è così tutte le volte che anteponiamo il termine a un’altra parola: serve quasi a mettere le mani avanti, a lanciare il segnale di un equilibrio precario difficilmente inquadrabile: è “abbastanza” intelligente, è “abbastanza” buono, è “abbastanza” diffuso. Per non parlare poi del “non aver fatto abbastanza”, quella sensazione di inadeguatezza lancinante, di non bastare a qualcuno, di non essere un buon bastone per la sua esistenza, di non riuscire a sostenere i suoi pesi e di sentire a propria volta il peso di questo.

Forse che ci sentiamo a posto solo nella sovrabbondanza (anche a costo di sprecare) dunque quando c’è una sostanziale parità tra domanda e offerta iniziamo a preoccuparci? Forse che ci siamo convinti di dover risolvere tutti i problemi del mondo, di dover essere sempre sul pezzo, di dover essere sempre oltre il limite naturale e salvifico delle cose? Forse che qualcuno ci ha persuasi, per esorcizzare le proprie insicurezze e i propri fallimenti, che ciò che siamo non è bastevole, è al di sotto degli standard e delle aspettative? Chissà.

Fatto sta che con l’abbastanza della vita occorre far pace. Ogni tanto e nella giusta misura, si intende. Provate a dire a una mamma o a un papà di fare per il proprio figlio giusto il necessario, di curarlo “quanto basta”, “a bastanza” appunto. Eppure, anche lì la tentazione di strafare è spesso figlia di uno strano senso di colpa e inadeguatezza più che di reali necessità. Anche perché, quando si ama, la sensazione di poter fare di più è normale. Bisognerebbe, allora, fermarsi ad ascoltarla: essa ci dice che chi amiamo non è completamente nostro, non è totalmente nelle nostre mani, sfugge al possesso e al controllo. E menomale! Possiamo sederci e respirare: non siamo il centro del mondo di quel qualcuno; stiamo sfidando il cancro della dipendenza e del ricatto emotivo-relazionale; stiamo guarendo dalla sindrome dello “spalaneve”, ossia colui che spiana sempre la strada all’altro, privandolo dell’opportunità di crescere attraverso ostacoli e difficoltà; stiamo comprendendo che, più del fare e dello strafare, è preferibile puntare all’essere.

Essere presenti, essere in ascolto, essere pronti, essere pacificati con il limite, essere sintonizzati con le emozioni proprie e altrui, essere disponibili, essere umani. Chi amiamo ha bisogno di questo prima delle innumerevoli cosa da fare, pure importanti, è ovvio! Non sia mai che tutto l’amore che diciamo di provare non si declini nella concretezza dei fatti. Evidentemente non è questo il punto. Si tratta di allenarsi ad accogliere il limite e a non crollare di fronte ad esso, all’errore, alla delusione, alla giornata storta, alla reazione sbagliata. Si tratta di coltivare il senso di inadeguatezza sano, che permette contemporaneamente di non sentirsi arrivati e di essere pronti, di non strafare per imparare a fare, di essere accogliendo il non essere.

Ne va della nostra serenità, della credibilità dei nostri “ti amo”, dell’adeguatezza del nostro operato. Fallace, imperfetto e sempre da migliorare. Ma bastevole e, al di là delle nostre aspettative e dei nostri calcoli, forse addirittura abbondante: è il miracolo della deposizione di ogni ansia da prestazione e mania di perfezionismo.