«Questo momento è una tela vuota e tu sei un artista di straordinaria abilità. Quale capolavoro creerai questa volta?»
(Ralph Marston)

Tutto inizia già nel momento in cui apri Pages, sul cellulare.

Sì, perché si può pensare che scrivere sia sedersi a una scrivania, quando, al solito, la realtà che si vede è fatta di scorni, quella reale è un banalissimo universo parallelo fatto di Adidas ai piedi, jeans sulle cosce, vestaglia di lana a sconfiggere un freddo che nel mondo tangibile non c’è, il buio di una stanza immensa, la penombra che tradisce la presenza di un pianoforte a coda, una poltrona e il display di un cellulare: scegli modello, dice; oppure inizia a scrivere.

E il dito sceglie la seconda: non esiste preparazione possibile quando scrivi. Lo fai e basta. E se non lo fai così, non stai scrivendo.

Altra verità: non sai quasi mai dove andrai a parare, perché quando scrivi, sai che non sei tu, ma che qualcuno o qualcosa ha scelto di renderti così, in un modo che non tornerà in alcuna altra occasione. Perdere quel momento, significa perdere un tiro: sai che ne arriveranno molti altri, ma non saranno mai più quello lì.

Dunque devi sperare di avere la fortuna di poter cogliere l’attimo, come viene viene, perché se lo lasci andare, lui va. Non ti aspetta e non si gira a guardare indietro. In realtà non va nemmeno avanti, non lo potrebbe fare senza di te, poiché di te aveva bisogno per restare immortalato. Di te che avresti dovuto fissarlo su un foglio o in un file, senza farti convincere dal tasto “Canc”, fra le altre cose.

Quindi evapora, sparisce, fa “pluff” e ti abbandona, senza mai dirti che in realtà è stato solo soggetto passivo: è stato lui ad essere abbandonato.

Ed è talmente avanti l’attimo della penna attiva, che nonostante tutto, non ripassa mai a presentare il conto: non gli interessa affatto. Sa di averti offerto una chance e non averla colta resta un tuo problema. Se non te ne accorgi niente verrà a fartelo pesare, sarai libero di dimenticare come mai fosse accaduto. Il problema nascerà solo e se ne avrai contezza, perché davvero si tratta della frazione di un secondo. Se non la prendi al volo, ti ha sconfitto: se n’è andata, pace all’anima tua.

Ed ecco che, esattamente adesso, da una poltrona al buio, con un pianoforte a coda in penombra, la vestaglia di lana che non ce la fa a vincere contro il freddo che sento solo io, per pensare alla forma dell’attimo, ho perso l’attimo.

Credetemi, non ricordo affatto per quale ragione ho aperto questo file. So di certo che deve essercene stata una, ma sono stata imprudente, mi sono persa via, l’ho lasciata andare. E niente, non me la ricordo.

Dunque mi fermo, mi alzo, preparo un the bollente e dichiaro resa, come quelle volte in cui ho un problema grosso, assolutamente degno di attenzione e lo risolvo con il metodo che più si dimostra alla sua altezza: testa sul cuscino, corpo sotto le coperte, a dormire.


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Sono una frase, un verso, più raramente una cifra, che letta al contrario mantiene inalterato il suo significato. Un palindromo. Un’acca, quella che fondamentalmente è muta, si fa i fatti suoi, ma ha questa strana caratteristica di cambiare il suono alle parole; il fatto che ci sia o meno, a volte fa la differenza e quindi bisogna imparare ad usarla. Mi presento: Myriam Acca Massarelli, laureata in scienze religiose, insegnante di religione cattolica, pugliese trapiantata da pochissimo nel più profondo nord, quello da cui anche Aosta è distante, ma verso sud. In cammino, alla ricerca, non sempre serenamente, più spesso ardentemente. Assetata, ogni tanto in sosta, osservatrice deformata, incapace di dare nulla per scontato, intollerante alle regole, da sempre esausta delle formule. Non possiedo verità, non dico bugie ed ho un’idea di fondo: nonostante tutto, sempre, può valerne la pena. Ed in quel percorso, in cui il viaggio vale un milione di volte più della meta ed in cui il traguardo non è mai un luogo, talvolta, ho imparato, conviene fidarsi ed affidarsi.