…e di lasciar perdere
Perdere è un fatto. Saper perdere un’arte. Lasciar perdere il segreto della felicità. Di mezzo c’è questa parola magica, in cui il prefisso per- indica deviazione, mentre quel “dare” suggerisce la direzione che conserva e riscatta.
Perdere è, insomma, un dare. Un dare che, però, ha il sapore del deviare. Perdere, in effetti, significa deviare dall’obiettivo. In questo senso la lezione della giovane nuotatrice Simona Quadarella alle Olimpiadi resta magistrale, nella misura in cui il suo perdere è diventato un saper perdere, al punto da dare a noi l’occasione di riflettere e a se stessa la possibilità di gioire immensamente.
Certo, le perdite sono difficili: forse perché con la cosa o la persona persa, perdiamo anche pezzi di noi, che avevamo dato in dono o, peggio, in uso, magari senza saperlo. Nel perdere c’è un disperdersi considerevole. E qui la deviazione può diventare devianza, smarrimento totale, fino al disperdersi totalmente nel vortice della delusione. In quel caso il dare deve essere un darsi: il perdono, l’amor proprio, il tempo necessario per ritrovarsi. Perdersi è più che perdere, è la perdita più difficile. E la guarigione implica il ritrovamento non di chi era andato perduto, ma di ciò che di noi avevamo smarrito.
Spesso, poi, occorre perdere l’idea che avevamo di una determinata cosa o persona, per imparare ad amarla per ciò che è in realtà. È un passaggio altrettanto complesso: anche in questo caso occorre deviare dall’autostrada delle certezze che il nostro cervello aveva prodotto, perdersi nelle strade secondarie spalancate dalla complessità di ogni esistenza e ritrovarsi nella sorpresa. Perdere l’ideale significa tanto: darsi e dare la possibilità dell’amore autentico, che guarisce dal morbo dell’aspettativa. Non perché non è importante aspettarsi la cura da chi amiamo, la correttezza da chi frequentiamo, il rispetto da chi stimiamo. Ma vivere divorati da un’aspettativa perenne ed estenuante significa perdere noi stessi e gli altri. Dimenticarsi irrimediabilmente di dare e condannarsi a ricevere passivamente.
E poi c’è il lasciar perdere, l’appagante sensazione di saper mollare cause perse in partenza, quel farsi scivolare dalle dita il controllo su cose incontrollabili, inamovibili, inspiegabili e, spesso, insopportabili. Lasciar perdere obiettivi irraggiungibili, situazioni fagocitanti, fantasmi del passato, mali incurabili. Lasciar perdere la parola sgarbata, il gesto inospitale, la scelta incomprensibile, il consiglio non richiesto, la convinzione inamovibile, la supponenza invincibile. Dove si rischia di perdere senza dare, lasciar perdere. Dove si rischia di perdersi senza darsi, lasciar perdere. Non per niente certe cause si dicono perse in partenza.
Il punto è questo: perdere non determina sempre una sconfitta. Ad essere sconfitto può essere anche un eterno vincitore se, come un perdente poco saggio, si dimentica che il punto di incontro tra conquista e perdita è il “dare”, l’apertura che permette all’io, ferito e trionfante, di respirare e vivere sempre, nonostante tutto.