«È chi, per esser suo vicin soppresso,
spera eccellenza, e sol per questo brama
ch’el sia di sua grandezza in basso messo»
(Purgatorio XVII, vv.115-117)
Canto diciassettesimo, abbiamo superato la metà del viaggio. Dante lascia la terza cornice e, a poco a poco, esce dall’oscurità come un viandante in alta montagna che, sommerso dalla foschia, torna pian piano a rivedere la luce. Ci accingiamo ad incontrare gli accidiosi ovvero quanti hanno nutrito uno scarso amore per il bene: un amore debole, pallido, proprio come i raggi del sole che faticano a farsi strada tra la nebbia.
Ancora una volta il poeta è come rapito in estasi. Nel canto quindicesimo aveva avuto tre visioni di mansuetudine, qui assiste a tre esempi di ira punita: Progne mutata in usignolo, la regina Amata che si suicida per aver perso la figlia Lavinia e, unico esempio di ambito biblico, Aman, ministro del re Assuero, che viene crocifisso.
Particolarmente scabrosa la vicenda di Progne: questa, pur di vendicare sua sorella Filomela e punire il proprio marito Tereo, che alla cognata aveva usato violenza, decide di uccidere il figlioletto Iti e di imbandirne le carni al padre. Orrore senza fine che mostra di cosa sia capace un uomo o una donna quando pervertono la propria capacità d’amare.
Non a caso, l’ingresso nella quarta Cornice, il cui accesso è indicato dall’angelo della mansuetudine, offre a Virgilio l’occasione per una sorta di lectio magistralis, di stampo chiaramente tomista, sulle molteplici manifestazioni d’amore.
Ogni creatura, spiega il maestro, ama di amore naturale – e questo non crea difficoltà – oppure d’amore d’elezione, cioè scegliendo l’oggetto della propria predilezione. Il problema sorge quando l’oggetto prescelto è un “malo obietto” (v.95), indegno d’amore.
E così c’è chi, invidioso, tende a primeggiare mirando ad abbattere la grandezza altrui; chi, per paura di perdere potere, favore, onore e fama, vive nell’angoscia di essere sopravanzato; chi, adombrandosi per l’offesa ricevuta, si nutre esclusivamente del desiderio di vendetta e così si intossica.
Dante e Virgilio incontreranno nelle cornici successive quanti si sono resi colpevoli di amori così disordinati: di certo, ne avvertiamo sin d’ora tutta l’amarezza, di quella che prima ti resta in bocca e poi ti scende nella pancia.
Chissà perché siamo così stupidi da rovinarci la vita: a pensarci bene, sarebbe così semplice, persino più facile, essere felici. Basterebbe amare e lasciarsi amare, godere della felicità altrui come della propria.
Elementare, Watson! Solo che noi siamo complicati. A noi piacciono le cose che ci fanno male. O perlomeno così sembra volerci dire padre Dante.
Francis Scott Fitzgerald: «Niente è così insopportabile come la fortuna degli altri»
Don DeLillo: «Il bello dell’amarezza è che puoi lavorarci sopra, purificare l’angoscia e il rancore».
Bacone: «Un uomo che medita la vendetta mantiene fresche le sue ferite».
Buongiorno e buon inizio di settimana!
Troppo facile essere felici e lasciarsi andare alle cose che ci fanno star bene…
A volte, se non spesso, arrovelliamo la nostra anima di pensieri cattivi, che i generano azioni negative che confluiscono in un mare di inquietudine, di insoddisfazione, di rancore. Dal male non può che uscire male e questa essenza che nell’uomo è presente, seppur celata, istiga alla cattiveria se non fino malvagità, che lasciano il nostro cuore inaridito, sconsolato, inappagato.
Siamo fatti per il bene, per l’amore, per l’eternità ma ce ne dimentichiamo, percorrendo sentieri trafitti di lacrime e anelando, a volte inconsciamente, quel Bene che ci ha soffiato dentro lo Spirito della vita e dell’amore. Non dimentichiamolo mai!
Grazie del caffè con cui inizio questa nuova settimana 🌈
“Siamo fatti per il bene, ma ce ne dimentichiamo”: grazie per avercelo ricordato, Emanuela!
Condivido i pensieri di Emanuela e le riflessioni del dirigente Farina.
L’uomo dimentica spesso e volentieri che essendo fatto a immagine e somiglianza di Dio (D-io) porta per sua natura il bene in sé. Ci arrovelliamo su questioni inutili e prive di fondamento forse perché anche la felicità, a volte, per la sua enorme portata salvifica puó far paura.
La felicità che fa paura: che vertigine!