L’alfabeto di Dante

Nella Commedia il termine giustizia appare per la prima volta sulla porta che accoglie Virgilio e Dante all’ingresso dell’Inferno:

Per me si va nella città dolente,

per si va nell’etterno dolore,

per me si va nella perduta gente.

Giustizia mosse il mio alto fattore:

fecimi la divina potestate,

la somma sapienza  e ‘l primo amore.

Dinanzi a me non fuor cose create

se non etterne, e io etterna duro.

Lasciate ogni speranza, voi ch’entrate.

(Inf. III, 1-9)

L’impatto col primo regno non poteva essere più duro, come testimonia lo «spaventoso crescendo» (così Pietrobono) del triplice «per me» che scandisce, come una campana a morto, la prima terzina del canto terzo. Di colpo il pellegrino appena partito, e con esso il lettore, si ritrova davanti all’ingresso di quel «doloroso regno» (Inf. XXXIV, 28) popolato da «la morta gente» (Inf. VIII, 85). Tale impatto risulta ancor più brusco se si considera che l’atmosfera del canto precedente era immersa in un’aurea celestiale. Lì, infatti, il lettore aveva conosciuto cosa era avvenuto in cielo e perché un uomo qualunque, senza particolari meriti se non quello della lunga frequentazione della poesia di Virgilio e dell’amore per Beatrice, era stato scelto per varcare la soglia dell’aldilà dopo Enea e San Paolo. Ora, però, il viaggio comincia e l’atmosfera celeste cede il posto all’oscurità delle tenebre.

Giustizia mosse il mio alto fattore:

fecimi la divina potestate,

la somma sapienza  e ‘l primo amore.

Sono qui richiamate le tre persone della SS. Trinità nei loro attributi caratteristici: «la divina potestade» per il Padre, «la somma sapienza» per il Figlio e il «primo amore» per lo Spirito. Ma a presiedere è la giustizia che regna in tutto l’oltremondo. L’Inferno, allora, è il luogo creato da Dio per dar sfogo alla sua giustizia punitiva? Certamente no. L’esperienza ci porta a considerare inferno la nostra stessa vita. Quando, infatti, l’uomo perde ogni orizzonte etico e morale, la sua esistenza scivola senza sosta verso l’abisso del non senso. Quanti hanno soppresso totalmente in se stessi il respiro della verità e il bisogno di amore? Quanti coltivano ogni giorno sentimenti di odio e vendetta, dimenticando l’orizzonte ampio e luminoso del perdono? Il secolo novecento, poi, è stato tragico testimone dell’assurdità di due guerre e dell’atrocità della barbarie nazista e comunista. Non è inferno questo? E anche oggi, nell’emergenza dell’epidemia che ha colpito il mondo intero, vediamo medici e sacerdoti che offrono la propria vita per un fratello sconosciuto, e chi invece specula su questa immane tragedia. L’inferno senza fine dell’aldilà, dunque, non è molto diverso dall’inferno dell’ “aldiqua” di cui l’uomo si rende responsabile.

Per Dante la giustizia di Dio non fa altro che rivelare la verità della vita dell’uomo. Essa dà pieno compimento al suo libero arbitrio nell’esercizio del quale l’uomo realizza o meno la sua vita. Poche versi dopo la descrizione della porta dell’inferno, Virgilio designa i peccatori come coloro che si sono privato de «il ben de l’intelletto», ad indicare la perdita della possibilità di ricercare il bene e, quindi, di aspirare alla verità ultima che è Dio. Se quest’ultimo, infatti, è quel «ver in che si queta ogni intelletto» (Par. XXVIII, 108), l’uomo che pecca si allontana da quel «ver» smarrendo anche la verità della propria vita. In Purgatorio, Dante dirà per bocca di Marco Lombardo che la responsabilità di ogni azione umana risiede nel libero arbitrio che governa la vita degli uomini e non nel cielo. Se così non fosse, vana sarebbe la giustizia che premia i buoni e punisce i cattivi:

«Voi che vivete ogne cagion recate
pur suso al cielo, pur come se tutto
movesse seco di necessitate.
Se così fosse, in voi fora distrutto
libero arbitrio, e non fora giustizia
per ben letizia, e per male aver lutto» (Purg. XVI, vv. 67-72)

La giustizia esibita da Dante nel poema diviene strumento di verità in grado di rivelare all’esterno ciò che abita l’interno di ogni uomo.

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