Con un cielo così limpido e la leggera brezza che spirava dal mare, da qualche chilometro distante, Marchetto, disteso sopra una panchina, aspettava qualcuno che gli commissionasse qualche lavoretto e che gli avrebbe dato possibilità di guadagnare un po’ di spiccioli per sbarcare il lunario.

Non capitava spesso, ma ogni tanto gli si proponeva di fare questo o quello al solo scopo di tenerlo impegnato e non trovarselo tra i piedi, magari con la mano tesa a chiedere soldi: per lui era un fatto scontato che gli altri gli dessero di che vivere, perché loro potevano e lui ne aveva bisogno, diceva.

I lavori cui il giovane era chiamato a svolgere erano incarichi pesanti che nessuno, all’infuori di lui, voleva assumere e svolgere.

Quella mattina era lì da più di un’ora. Non gli si era avvicinato nessuno per comandargli il da farsi.

Erano successe altre volte, perciò non si era ancora ricomposto, ma se ne restava lì, srotolato come un tappeto indiano messo in mostra per la vendita.

Si era sdraiato supino sopra quel cencio, che una volta doveva esser stato cappotto, dopo che l’aveva steso a guisa di materasso sulla panchina di ghisa.  In quella posizione aveva il ventre mezzo scoperto e le mani sotto la nuca, incrociate a mo’ di guanciale. Aveva i piedi cipollosi, nudi e neri dall’incuria, accavallati l’uno sull’altro. In quell’atteggiamento Marchetto sarebbe apparso alla pari di un turista che si stava sollazzando su di una spiaggia alle Bahamas, se solo il mare avesse allungato l’onda fin sotto quella panchina.

Il sole lo illuminava mettendo in risalto le sue fattezze grossolane, sgraziate e che lo facevano apparire alla pari di un animale, inseguito sotto una pioggia battente, dai bracconieri.

Ciò non gli non gli era stato permesso di entrare d’appieno nella società nella quale, evitato ma non del tutto sgradito, da lungo tempo viveva.

L’emarginazione era una causa del suo vagabondare, ma la solitudine non scalfiva per nulla la sua fierezza dell’esser tale, anzi lo assecondava nei momenti più difficili, quando non riusciva a capire la gente che gli stava intorno e si ritirava in sé come fa il riccio nei momenti di pericolo.

Non era pauroso: semplicemente lui ignorava il pericolo.

Nel caso il giovane si fosse trovato di fronte il frangente, egli non si sarebbe accorto della pericolosità. Non avrebbe potuto riconoscerla ma, in effetti, era in costante simbiosi con essa. Per lui era come una specie di distrazione, un nutrimento obbligatorio che gli permetteva di sopravvivere ai disagi giornalieri, il pericolo.

Quelli del paese lo sapevano e se ne approfittavano, facendogli svolgere lavori pericolosi e malsani mentre lui sembrava rigenerarsi ogniqualvolta si cimentava in simili fatiche.

Gli stracci che lo coprivano e gli lasciavano qualche parte del corpo scoperto non gli davano un aspetto decente, tantomeno rassicurante per la gente che non lo conosceva.

Dal vello che gli copriva il petto, emergeva un logoro e sdrucito abitino.

Qualcuno gliel’aveva attaccato, forse per devozione a qualche santo il quale poi gli aveva reso grazia di non essere come gli altri, ma gli aveva reso quella “tranquillità” che di certo non avrebbe avuto se lui fosse stato uno di loro.

Fatto sta che quella reliquia rigonfia e logora, per Marchetto era l’unico oggetto prezioso che gli rimaneva, insieme al suo cappotto sdrucito e che non abbandonava mai, nemmeno d’estate, quando lui stesso usava dire che il sole seccava l’erba e riscaldava il mare.

Tutto l’affannarsi, l’imprecare, l’inveire a destra e a manca per arrivare, alla fine della giornata, sfiniti e insoddisfatti, era prerogativa dei più.

Marchetto invece, viveva come poteva e dormiva quando voleva; non gli serviva altro che l’esser libero da consueti impegni: gli bastavano quelli occasionali.

Era solito abbeverarsi e lavarsi la faccia a una fontana posta nel centro del paese, una delle tante rimaste con la struttura in ghisa sulla quale appariva bene in vista lo stemma del fascio e la dicitura: “Acquedotto pugliese, 1932”.

La gente del paese lo conosceva da vecchia data: fin da quando, fu partorito da una donna di nome Mira.

Si diceva che la donna provenisse dal Montenegro o dalla Grecia e che si era fermata in paese per qualche tempo, pure lei prestando dei servigi presso alcune famiglie del posto pur di guadagnarsi il pane.

Sua madre era deceduta, dopo aver messo alla luce il bambino, e così che Marchetto rimase solo e senza dote, nemmeno con un filo di speranza poiché questa arriva sempre più tardi, quando uno incomincia a rendersi conto in quale razza di mondo, si trova.

Molti si chiesero chi fu il padre del bambino, certamente un uomo del paese poiché Mira si trovava lì da quasi tre anni senza mai essersi assentata dal loco.

Rimase un mistero in ogni modo, e dovette il parroco del paese prendere iniziativa e far allevare il piccolo nell’ambito della parrocchia.

È pur risaputo che pure i preti, prima o dopo se ne vanno, così anche per Don Peppino. Per forza naturale, suonò la campana, perciò si trovò nelle condizioni di non poter mantenere l’impegno preso con la propria coscienza religiosa.

Fu così che Marchetto, con la morte del Parroco, si vide recidere il cordone ombelicale per la seconda volta: prima dalla madre e subito dopo dalla Provvidenza.

Il Sindaco, strano a crederlo, ma era un tipo da prendere con le molle, tanto che non tirava vento nel paese che non portasse note diafane sul suo conto.

Manovrava la legge, non solo a suo piacimento, ma non teneva conto nemmeno delle situazioni gravi e prioritarie, quelle che un Primo cittadino era tenuto a rispettare, e per Marchetto non arrivò nessun aiuto da quella parte e fu da quel momento che ebbe inizio il suo calvario.

Il sindaco, nonostante tutto, a ogni elezione amministrativa era riconfermato.

Il suo “sgabello”, fin dall’inizio vacillante, col tempo era diventato: una comoda sedia, una stabile poltrona e infine un “rilassante divano”.

L’andazzo andava avanti già da molti anni sì che la gente si era ormai abituata: si era resa noncurante della situazione, più che tollerante.

Fu così che alla morte del prete il bambino fu affidato a un collegio di suore e lì rimase fino all’età di quindici anni, dopodiché lui stesso decise di abbandonare il convitto per andare a respirare l’aria esterna e meno “viziata”, come lui spesso affermava.

Nel periodo passato tra quelle mura, non si era mai presentato nessuno a fargli visita, almeno direttamente, ma qualche anonimo aveva badato a pagare una retta senza per questo mettersi in vista.

Fu così che il giorno che Marchetto incominciò, prima a ribellarsi e poi praticando sporadiche fughe verso l’esterno, il fatto dispiacque alle suore e non si seppe mai se per causa della mancata retta o per carità cristiana.

L’astro era al culmine della giornata e proiettava perpendicolarmente i suoi raggi infuocati sopra la natura sottostante dove, pure le cicale, spossate, si erano zittite, aumentando l’ovattato silenzio che già culminava tra i bianchi bassi delle contrade.

Solo uno stanco scalpiccio e dalla cadenza incerta venne a rompere la quiete: era il passo mutilato di uno zoppo che si avvicinava all’orecchio sveglio del riposante. Questo, socchiuse a stento gli occhi per non farseli inondare dall’abbagliante chiarore del sole, volse lo sguardo da quel lato per inquadrarne meglio la scena e aspettò.

Vide un uomo sulla cinquantina e che lui conosceva già. In paese era conosciuto col nome di Ventresca per via del suo ventre che, a causa del fegato ingrossato per le arrabbiature che gli procuravano alcuni suoi clienti, gli si era gonfiato.

Indossava una camicia verde a mezze maniche, chiusa fino al collo, dov’era annodata una sgargiante cravatta gialla, con dei puntini neri disegnati tanto da farla somigliare a una di quelle carte appiccicose per catturare le mosche. Nella sua bottega, Ventresca, ne faceva largo uso di quelle carte moschicide ma restavano a lungo vergini a differenza dei salumi che erano ben visitati e preferiti, dalle mosche.

L’uomo si presentava in uno stato rugiadoso: era sudore che gli grondava da tutto il corpo. Sembrava che avesse smesso proprio allora la lunga e sconcia camminata, per arrivare fino in quel luogo dove Marchetto riposava.

-Guagliò disse, -che ne pensi di fare quattro passi con me? E si guardò la gamba malata, -mi devi fare un lavoretto leggero, così ti guadagni qualcosa, piuttosto che startene qui a impigrire. Il giovane si drizzò a metà rimanendo seduto sulla panchina, squadrò chi gli stava di fronte e chiese: – È lo stesso lavoro dell’altra volta, oppure si tratta di qualcosa di nuovo? -Non ti preoccupare di che si tratta… e poi, quando sarai sul posto, vedrai: nulla che tu non possa fare! Marchetto si eresse in tutta la sua statura, raccolse il suo indumento e disse: -Andiamo a vedere.

Lo zoppo era un bottegaio del paese, un salumiere, ma l’attività più redditizia e che non era registrata alla Camera di Commercio, era quella di prestare soldi a usura alla gente che si veniva a trovare, in un modo o nell’altro, con l’acqua alla gola.

Marchetto lo sapeva: era informato del fatto che lo zoppo era un cattivo pagatore, ma a lui non importava.

In ogni modo lui avrebbe pattuito prima di svolgergli il lavoro e poi: l’ultima volta lui era rimasto contento di com’era andata.

Il posto dove si recarono si trovava in periferia: era una masseria, dove l’usuraio teneva gli animali e che faceva pure da deposito per la merce dell’attività lecita, quella di salumaio.

Il sito era guardato da una persona di fiducia: un gaglioffo di mezza tacca, ma pur sempre un birbone che non aveva mai rinunziato alla galera, anche perché, come lui stesso asseriva, con quei giorni passati in cella lui era diventato qualcuno.

Il solo movente che aveva per trovarsi in quel posto, era proprio quello che lo assimilava al suo padrone, anche lui persona indegna. Lo aveva ingaggiato con lo scopo di non fare avvicinare ladri al suo magazzino, senza poi rendersi conto che se ne aveva messo uno dentro, dopo avergli dato le chiavi senza riceverne garanzie.

In paese, il guardiano, era conosciuto con il nomignolo di Raspa, ma nessuno si ricordava l’origine di quell’appellativo. Alcuni dicevano che era riferito a suo nonno il quale, essendo falegname, maneggiava spesso quell’attrezzo, la raspa. Molti altri glielo appioppavano direttamente poiché lui aveva cominciato a “grattare” a destra e a manca e non aveva più smesso.

In un modo o nell’altro non era il nome che faceva pensare al peggio, ma era il comportamento dell’uomo che dava motivo a voci preoccupanti, sul suo conto.

Il sindaco l’aveva cavato più di una volta dal pantano, dove egli era solito cacciarsi.

Questo aveva pur dimostrato un certo affiatamento col Raspa: la gente l’aveva capito dalla confidenza che si era instaurata tra i due.

Il primo cittadino, detto Salamoia, dava manate sulla spalla del Raspa e quest’ultimo s’intrufolava nell’ufficio dell’altro, tutte le volte che voleva, senza che nessuno osasse chiedergli se avesse udienza prenotata.

-E allora? Proruppe il ragazzo con fare impaziente. Lui non vedeva l’ora d’incominciare, ma Ventresca gli chiese: -Hai mangiato qualcosa, almeno, prima che ti dica cosa devi fare? -Ho mangiato ieri a mezzogiorno un bel panino con delle olive salate e… mi sento ancora lo stomaco pieno… ora, non ho fame! Gli rispose Marchetto. -Allora vieni con me che ti spiego. Ventresca, si cavò di tasca un mazzo di chiavi, ne scelse una, la infilò nella toppa e cercò di farla girare, ma non successe nulla: la porta non si apriva dopodiché ne scelse un’altra dalla serie e fu la volta che la porta si aprì, così poterono entrare.

La stanza doveva essere molto grande ma non si notava perché era piena zeppa di sacchi, bidoni, cartoni ammassati uno sull’altro e sul pavimento.

Sparsi qua e là, chicchi di grano, arachidi, mandorle rosicchiate dai topi e un forte odore di muffa che non metteva per nulla in soggezione lo zoppo.

Questo con voce bassa, disse al ragazzo: -Tu dormirai qui dentro, ma solo se tieni gli occhi bene aperti e controlli i movimenti del Raspa. Il ragazzo si guardò intorno, si portò la mano destra tra i capelli e unì le labbra a mo’ di ventosa, emettendo un mugugno. Si girò verso l’uomo e gli chiese: -Ma il Raspa non è il tuo guardiano? Attese un attimo e poi: – Non so come potrò controllarlo poiché io qui ci verrei solo a dormire, l’avete detto voi, e se uno dorme, non guarda da nessuna parte… ma se solo voi vi spiegherete di più… eh, forse allora potremo metterci d’accordo sul da farsi.

Marchetto non era stupido, non lo poteva essere per la vita che menava e non lo sarebbe stato nemmeno in quel frangente, conoscendo bene la taratura sia del Raspa sia quella del Ventresca. Immaginò che nulla di buono gli si sarebbe presentato se avesse preso il tutto a cuor leggero, perciò lui attese che lo zoppo si aprisse meglio e gli spiegasse, chiaro e tondo, il da farsi.

-Io volevo spiegarti un po’ alla volta per non confonderti le idee, disse il Ventresca e proseguì: -Fatto è che io non mi fido più di quel birbone… è da un po’ di tempo che mi sono accorto che qui manca della merce… che lui non è in grado di giustificare. Ho pensato che tu potresti vivere qui, insieme con lui, così potrai controllarlo e riferirmi ogni suo movimento. Naturalmente, per questo, tu sarai pagato, e poi: avrai un tetto sotto il quale dormire… potrai cominciare da subito… penserò io a parlare col Raspa dicendogli che da oggi in poi tu sarai qui di casa e farò in modo che lui non si agiti per questo.

Il ragazzo fece cenno col capo e annuì. Accettò l’incarico riservandosi di prendere decisione contraria, qualora lui avesse riscontrato degli intoppi di natura contraria alla sua indole. Marchetto si trovava male in arnese, vestiva peggio, non aveva avuto grande istruzione, ma in fatto a onestà, tutti lo sapevano, e, per lui, ci avrebbero posto la mano sul fuoco, senza bruciarsela.

Essendo stato allevato dalle suore, il ragazzo avrebbe potuto recitare qualche prece in più piuttosto che appropriarsi della roba altrui oppure commettere atti illeciti: lui non conosceva arte per queste balordaggini.

Il Raspa fu ragguagliato dal Ventresca il quale, a malincuore, fece un movimento di spalle e annuì dondolando il capo, ma non profferì parola.

Il ragazzo, con quell’impegno preso incominciò a uscire dall’ozio e ad accudire agli animali della masseria: porci, galline, conigli, anatre, un cavallo baio e un asinello dal pelo rosso marcio.

Per rifocillarsi Marchetto non aveva più problemi e qualche soldo che gli dava Ventresca gli restava appiccicato nella tasca poiché non aveva modo di consumarlo: aveva tutto a portata di mano ed era stato autorizzato dal padrone a farne uso personale di quella roba.

Era passato qualche mese da quando Marchetto si trovava in quella masseria e non aveva notato movimenti strani all’infuori del fatto che il sindaco veniva spesso a trovare il Raspa.

Il sindaco era venuto altre volte in compagnia di Ventresca e i due erano soliti rinchiudersi in una stanza per discutere, dei loro problemi.

Un bel giorno Marchetto dovette assistere a una scena incresciosa che lo lasciò perplesso e ammutolito.

Erano le quattro pomeridiane, mentre una pioggia battente allagava il paesaggio circostante. Il ragazzo se ne stava seduto di fronte al camino che lui stesso aveva acceso, ponendovi del legno di mandorlo e delle frasche d’ulivo, dopo averle prelevate dalla legnaia.

Teneva gli occhi chiusi, senza fantasticare. Non pensava al suo ambiente, la libertà.  Ma non le mancava, solo che la sua mente ora era più impegnata del solito per poterne respirare a pieno giorno. Se prima il suo mondo restava circoscritto in qualche miglio quadrato, ora si era ridotto a una campana di masseria.

Sentì dei rumori provenienti dall’esterno e subito si alzò per andarne a controllare la causa.

Era Raspa che, in modo furtivo, ritornava alla base recando con sé una valigia che, dal modo come la reggeva, non doveva contenere nulla di pesante: forse era vuota.

Si fermò sotto il palmento e appoggiò la valigia sopra un tino capovolto e, dopo aver estratto un mazzo di chiavi dalla tasca, aprì la porta del magazzino, s’intrufolò richiudendola delicatamente alle spalle, senza sbatterla.

Il ragazzo rimase a osservare quella porta chiusa, ma non per molto, difatti vide che si riapriva e sull’inquadratura appariva Raspa con mano la stessa valigia ma questa volta piena: si notava dalla fatica che appariva sul volto dell’uomo.

Lui, uscì e non chiuse a chiave la porta del magazzino, ma si limitò ad accostarla leggermente.

In quel mentre, sull’aia antistante fece capolino un calesse trainato da un giovane morello. Era il sindaco che lo montava. Questi smontò e si diresse verso Raspa che lo aspettava. Entrambi, dopo aver caricato la pesante valigia sul calesse, si misero a discutere animatamente.

Aveva smesso di piovere e per l’ora che si era fatta anche la luce del sole che stava tramontando all’orizzonte, incominciava ad affievolirsi.

Marchetto fece il giro della costruzione per avvicinarsi ai due poiché da quella posizione avrebbe ascoltato meglio quel che si dicevano.

Era Raspa che si lamentava con Salamoia: -Amico caro, qui dobbiamo smetterla d’andare avanti in questa maniera perché non sono più solo, e sono sicuro che Ventresca abbia sentore della faccenda… altrimenti non mi avrebbe messo alle costole il ragazzo.

-Non dire stronzate! -, sbottonò l’altro –Piuttosto: come la mettiamo con la tua situazione? Dovrò lavarmene le mani, forse? Qui bisogna che si vada avanti come le altre volte… e stattene tranquillo poiché ognuno di noi ha qualcosa da farsi perdonare. Aveva pronunciato l’ultima frase dando un colpetto sulla spalla del Raspa il quale diede uno scatto all’indietro e gli gridò in faccia: -Se tu la metti sotto quest’aspetto, io sarò quello che ti rovinerà. Credi che io non abbia elementi abbastanza da farti provare le comodità di una cella delle nostre prigioni!  -Ah! Mi ricatti? E così che mi ripaghi, dopo tutte quelle castagne che ti ho levato dal fuoco? -A quali castagne alludi, figlio di buona donna! Forse a quelle che ti manderò di traverso se non la smetti di rompermi le palle? Perciò adesso fammi il piacere di levarti dai piedi e cercati un altro babbeo per i tuoi loschi affari, ma lasciami in pace!

Marchetto rimase senza parole dopo la discussione tra i due: non solo il Raspa, pure il sindaco era della stessa specie e il nomignolo di Salamoia, se l’era guadagnato a causa degli intrugli che lui era solito preparare ai danni del prossimo.

Il sindaco scomparve oltre l’aia della masseria, il ragazzo ritornò a sedersi vicino il focolare e attese che Raspa facesse la prima mossa, ma sentì dei rumori di passi e vide che una figura si allontanava verso il paese: era il sorvegliato guardiano che se ne andava.

Uscì e si avvicinò alla porta del magazzino e si assicurò che questa era chiusa: prese le sue chiavi e aprì la porta. Sembrava tutto in ordine, solo una pigna di scatoloni era stata rimossa e il contenuto rovesciato sul pavimento dove Marchetto notò che vi erano alcune carte sparpagliate: erano documenti di prestiti e cambiali, sottoscritte da coloro che si erano indebitati col Ventresca.

Ne raccolse alcune e si mise a leggerle quando sentì il rumore di passi dentro la stanza.

Fece in tempo a nascondersi dietro a una pigna di sacchi quando entrarono due persone e, dalle loro voci, lui comprese che si trattava di Ventresca e Salamoia.

Quest’ultimo compariva e scompariva alla stessa maniera dei conigli nei cappelli dei prestidigitatori, pensò Marchetto.

I due si sedettero uno di fronte all’altro e incominciarono a parlare d’affari. -Mi pare che siamo oltre il punto stabilito… – disse Ventresca al suo interlocutore e aggiunse: -Io non so che farmene di quelle cambiali, se poi alla fine non sono riscattate con del denaro sonante. L’altro si finse contrariato al tono del salumaio e rispose: -Vuoi che adesso mi metta a piangere perché i tuoi affari viaggiano male? Oppure che vada a rubare per ripagare le tue fameliche pretese del cinquanta per cento mensili? È meglio che tu sappi che non ho soldi da darti, anzi li ho ma non sono intenzionato a darteli e se non tieni la bocca chiusa, dirò tutto quel che so sul conto del ragazzo.

-Ah, birbante! Ora mi ricatti senza buone maniere? Non è tanto facile liberarsi di me e posso fartela pagare, se non mantieni il tuo impegno preso nei miei riguardi. Salamoia si scompose e alterò il timbro della sua voce alzandolo di qualche tonalità. Lui si alzò dalla sedia e girò intorno al Ventresca che se ne stava seduto con la faccia paonazza e gli occhi arrossati dalla furia. -Stammi bene a sentire- riprese Salamoia, accendendosi una sigaretta, ma l’altro proruppe: -Spegni quella cosa! … qui dentro c’è del materiale infiammabile e può succedere di ritrovarsi insieme all’inferno. -Quello è un sito visitato da strozzini come te -, disse il sindaco, -non da galantuomini come me, e poi, con quali credenziali vorresti farmi causa?

Ventresca, si era alzato e aveva messo le mani in avanti per afferrare il collo del sindaco: -Farabutto che non sei altro! E le cambiali, credi forse che le abbia date in pasto ai miei maiali? Sono proprio quelle, invece, che ti creeranno problemi -Non è il caso di discutere di quella cartaccia imbrattata-, rispose l’altro e poi: mostramela!

A questo punto al Ventresca gli balenò in testa l’intesa che c’era tra il sindaco e quel disgraziato del suo guardiano e sommando: due più due fanno quattro, capì il raggiro che questi gli avevano giocato. Andò su tutte le furie, e si diresse verso la pigna di cartoni dove, in mezzo alle salsicce aveva nascosto i documenti dei prestiti concessi.

Non appena si avvicinò, vide dei documenti sparsi sul pavimento e, dalla rabbia, si avventò contro Salamoia: -Ah, traditore! Tu e quel fetente di un galeotto adottato: me lo avete giocato il tiro- e gli si avventò contro afferrandolo per la gola. A quel punto l’altro fu più lesto di lui: indietreggiò, afferrò la pesante sedia e gliela fracassò sul cranio del Ventresca che stramazzò a terra con un tonfo sordo.

Salamoia pensò di averlo ucciso e, in preda al panico cavò di tasca il suo accendino e appiccò il fuoco alla pigna di sacchi dopo aver vuotato il contenuto di petrolio di un lume appeso alla parete. In un battere di ciglia le fiamme divamparono avvolgendo tutto il materiale, mentre il fumo incominciava a togliere il respiro a Marchetto che era rimasto rannicchiato in un angolo del magazzino. Non ce la faceva più a respirare e con un salto uscì allo scoperto. Gli si presentò una scena raccapricciante: vide il corpo del suo padrone steso sul pavimento con la faccia che grondava sangue e le fiamme che quasi ne lambivano il corpo.

Il ragazzo non si perse d’animo, attraversò la porta e si diresse all’aria aperta, inspirò profondamente e poi corse nella stanza del camino, dove aveva lasciato il suo cappotto; lo immerse in una catinella d’acqua che stava sotto una grondaia e si diresse a tutto spiano verso il magazzino.

Ormai le fiamme erano così alte che solo un pazzo sarebbe entrato in quell’inferno.

Marchetto si tiro sulle spalle il cencio inzuppato d’acqua prima di entrare nella cortina di fiamme: vide il corpo di Ventresca con i vestiti che già bruciavano, si tolse il cappotto e glielo buttò addosso soffocando le fiamme, poi se lo caricò sulla spalla e, come un sacco di grano, lo portò fuori dal magazzino.

Appena usciti, il ragazzo stramazzò al suolo e rimase disteso come il Cristo levato dalla croce.

C’era già un nugolo di persone che si affaccendava, con secchi e con quanto altro gli era capitato fra le mani, erano arrivati in tanti a buttare acqua sul fuoco, mentre altri lo attingevano dal pozzo posto sull’aia. Arrivarono i primi soccorsi che portarono via il Ventresca e il giovane Marchetto. Sul suo corpo furono riscontrati scottature di secondo e terzo grado: fu necessario il ricovero nell’ospedale del capoluogo. Il ragazzo era conciato malissimo e nel delirio seguitava a dire: – È stato Salamoia! È stato Salamoia! Dopo qualche ora di cure spirava sul lettino del policlinico: aveva uno strano sorriso sulle labbra, forse era rimasto contento di com’erano andate le cose. Ventresca non si riprese del tutto: oltre i guai al fegato gli si attaccò una forte malinconia che divenne supplizio quando qualcuno gli consegnò l’abitino bruciacchiato, quello che Marchetto portava al collo e che lui aprì. Dentro c’erano un santino sbiadito e irriconoscibile e un foglietto con una scrittura poco chiara ma ancora leggibile: -Tuo padre non è degno di te, perciò non cercarlo. Ai funerali di Marchetto parteciparono in tanti, ma nessuna lacrima fu consumata. Solo il salumaio, con la testa tra le mani, seguitava a piangere: nessuno seppe mai se per colpa dei crediti cancellati dal fuoco o per la morte di suo figlio.

Il Salamoia e Raspa, dopo essersi denunciati a vicenda, si ritrovarono nel carcere di Lucera, e, dopo un po’ di tempo, non si parlò più di loro.

 2003/11/02

Novella inedita dal libro “Con gli occhi del senno”

 


FontePhoto by Ye Jinghan on Unsplash
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Salvatore Memeo è nato a San Ferdinando di Puglia nel 1938. Si è diplomato in ragioneria, ma non ha mai praticato la professione. Ha scritto articoli di attualità su diversi giornali, sia in Italia che in Germania. Come poeta ha scritto e pubblicato tre libri con Levante Editori: La Bolgia, Il vento e la spiga, L’epilogo. A due mani, con un sacerdote di Bisceglie, don Francesco Dell’Orco, ha scritto due volumi: 366 Giorni con il Venerabile don Pasquale Uva (ed. Rotas) e Per conoscere Gesù e crescere nel discepolato (ed. La Nuova Mezzina). Su questi due ultimi libri ha curato solo la parte della poesia. Come scrittore ha pronto per la stampa diversi scritti tra i quali, due libri di novelle: Con gli occhi del senno e Non sperando il meglio… È stato Chef e Ristoratore in diversi Stati europei. Attualmente è in pensione e vive a San Ferdinando di Puglia.