In tema di proprietà privata i profili civilistici dell’ordinamento sono strettamente connessi agli aspetti costituzionalistici ed amministrativistici. Anche dal punto di vista tributario, a rigore, ci sono forti implicazioni. Il privato che abdica al proprio diritto soggettivo assoluto di tipo proprietario, infatti, il più delle volte ha un intento auto-liberatorio.
Malgrado l’elemento della causa ablativo-liberatoria dell’atto rinunziativo in questione risulti tecnicamente distinto dai motivi dell’atto, tra i motivi più frequenti di tale peculiare animus spoliandi è presente la volontà di non essere gravati dal punto di vista fiscale, tributario. L’effetto di elisione del rapporto di titolarità tra il bene e il soggetto che dello stesso era proprietario, e la successiva condizione giuridica del bene come “vacante” prima, e di bene acquisito dallo Stato exart. 827 poi, secondo una parte del pensiero dottrinale contrario alla rinunziabilità della proprietà costituiscono la causa di un danno sociale, per la generalità dei consociati. Tale danno si verificherebbe sotto il profilo della diminuzione delle entrate erariali da canalizzare per la cura concreta di interessi generali e di interessi pubblici, e anche di interessi collettivi peculiari; la diminuzione delle entrate sarebbe eziologicamente riferibile alla neutralizzazione del rapporto giuridico tra il fisco e il proprietario rinunziante.
Occorre quindi tendere l’asse dell’analisi scientifica sull’art. 832 cod. civ., che scolpisce il contenuto del diritto del proprietario quale diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo, entro i limiti e con l’osservanza degli obblighi stabiliti dall’ordinamento giuridico. Questi obblighi possono spingersi ad essere configurabili quali divieti di rinunzie meramente abdicative? Qualora dovesse accettarsi la tesi del divieto di rinunzia, la ratiosarebbe da rintracciare nella funzione sociale della proprietà privata di cui all’art. 42, comma 2, Cost.; nell’entroterra concettuale di un marcato funzionalismo sociale della proprietà privata si tenderebbe a vincolare questo diritto assoluto in modo altamente conformativo alle esigenze della collettività, unitamente al sistema di imposizione tributaria vocata a progressività. Nell’entroterra concettuale di una più temperata socializzazione funzionale, invece, in modo meno radicale si opterebbe per la garanzia dell’autonomia dei privati proprietari, i quali appunto potrebbero esercitare il proprio ius utendi et abutendi, con l’unico limite del rispetto del neminem laedere. Il contenuto del broccardo sullo “ius utendi et abutendi re sua, quatenus iuris ratio patitur”, e quindi del diritto di usare ed abusare della propria cosa finché lo permetta un valido motivo di diritto, infatti, era una prerogativa strutturale dell’ordinamento giuridico romanistico, non più attuale per via della rilevanza sociale accordata alla proprietà privata nell’èra costituzionale, successiva alle legislazioni ottocentesche di matrice eminentemente “borghese”. La categoria del diritto assoluto, in seno alla quale si pone il diritto reale di proprietà, comporta il dovere del neminem laedere per la generalità dei consociati, in favore della posizione giuridica soggettiva del proprietario. L’esistenza, l’estensione e l’intensità di tale dovere, a rigore, potrebbe implicare uno speculare, simmetrico dovere, per il proprietario, di non ledere la generalità dei consociati sotto il profilo della imponibilità tributaria ispirata al criterio della progressività contributiva di cui all’art. 53 Cost.?
Una visione del diritto personologico di matrice tendenzialmente libertaria, invece, vedrebbe la non ammissibilità della rinunzia abdicativa come una gabbia giuridica per il cittadino titolare di un diritto dominicale. Nei periodi di congiuntura economica, come quello degli ultimi anni a partire dal 2008, la dottrina avverte il dovere di riflettere sul grado di rigidità dogmatica dell’ordo ordinatus nel suo versante civilistico, nonché sugli spiragli di flessibilità del diritto positivo nel suo momento applicativo. I civilisti che sposano gli orientamenti più autonomistici tendono ad ammettere l’atto di rinunzia della proprietà; ciò non soltanto in un’ottica conseguenzialistica alla crisi, emergenziale e rimediale, ma anche in virtù dei principi liberalgarantistici, salutati come parte essenziale del fondamento valoriale che penetra l’intero ordinamento, sia nella dimensione del “de iure condito” che in quella del “de iure condendo”.
L’esigenza di superare la crisi economica individuale, da parte del proprietario rinunziante, così, costituisce il primum movens dei motivi e, conseguentemente, della causalità negoziale o comunque attizia della rinunzia in questione. La ragione fiscale, statisticamente, costituirebbe l’alfa e l’omega della problematica della rinunziabilità della proprietà immobiliare, poiché non soltanto i motivi del rinunziante troverebbero ragione nella aspirazione alla neutralizzazione del rapporto tributario con il fisco, ma anche gli effetti dismissivi successivi alla rinunzia medesima ricadrebbero nel campo tributario, con conseguenti diminuzioni delle entrate che lo Stato destinerebbe ai servizi a tutela della persona, ad esempio, o comunque a sostegno di interessi pubblici, nonché di quelli generali. Se si accetta la tesi liberale e garantistica delle libertà della persona-proprietaria, a rigore, si violerebbe lo spirito con cui il Costituente ha previsto i limiti di cui all’art. 42 Cost., limiti non definiti e non specificati dallo stesso Costituente ma scolpiti come elementi giuridici funzionalizzati in senso sociale, e configurabili quali requisiti ontologici stessi della proprietà privata nell’èra costituzionale.