Sono passati circa due mesi dall’inizio dell’emergenza da Covid-19 e nella narrazione della pandemia si è fatto ampio ricorso alla metafora della guerra.
Di fronte ai numeri del contagio porre l’accento su tale aspetto potrà apparire superfluo, tranne se si considerano le conseguenze che le scelte lessicali comportano nella comprensione di un fenomeno complesso come quello epidemiologico in corso e non solo.
La metafora è una figura retorica fondata sul forte potere evocativo delle parole scelte in sostituzione di quelle che normalmente occuperebbero il loro posto nella frase. La guerra, senza dubbio, evoca immagini forti e precise, “mentalizzate”, ed è entrata da tempo nel gergo comune: si parla di “guerra in campo” nelle manifestazioni sportive o, ancora, di “battaglia” nell’ambito del confronto politico. Nell’affrontare la pandemia, “Siamo in guerra” è la dichiarazione pronunciata a più riprese sia dai capi di stato, da Macron a Johnson, sia da alcuni economisti come Mario Draghi, in un ariticolo apparso sul Financial Times, sia, ancora, dagli illustri virologi ed epidemiologi chiamati ad esprimere la loro opinione.
Si tratta di un comprensibile tentativo di evidenziare la gravità della situazione che non tiene in minima considerazione le conseguenze di un scelta lessicale tutt’altro che condivisibile e che semplifica ciò che, invece, è complesso.
In primo luogo, sottolineando un’ovvietà, una guerra prevede un nemico che pianifichi o stia pianificando un attacco di cui siamo potenziali vittime. Prevede, dunque, una strategia che il virus non ha. Il virus non sa nulla di noi, ignora completamente la nostra esistenza. È un parassita che si trasmette a sua insaputa. È una forma di vita non intelligente.
Il linguaggio bellico altro non fa che umanizzare il virus, lo trasforma da elemento naturale da studiare, controllare e rendere innocuo, in un nemico da abbattere, con qualunque mezzo. Da questo punto di vista sono illuminanti le parole dell’inviata di guerra Barbara Schiavulli: “Ogni volta che dal divano guardo il soffitto di casa e so che non mi crollerà addosso, so anche che non è una guerra. Ogni volta che apro l’acqua e mi esce copiosa e calda, so che non è una guerra. Si può anche aver paura di essere contagiati, ci si può sentire soli e impotenti, ma non è una guerra dove si rischia di essere stuprate o sgozzati”.
Su Internazionale, invece, Daniele Cassandro sottolinea come la metafora sia “rischiosa”, perché “parlare di guerra, d’invasione e di eroismo, con un lessico bellico ancora ottocentesco, ci allontana dall’idea di unità e condivisione di obiettivi che ci permetterà di uscirne”.
La guerra, inoltre, anonimizza le vittime. Le rende una conseguenza necessaria e contemplata. Le rende numeri proprio come quelli comunicati nei bollettini della Protezione Civile, senza badare al fatto che ogni contagiato, prima di essere un ammalato, è una persona con la sua storia.
Giova a tal proposito citare Susan Sontag che nel suo Malattia come metafora scriveva:”La guerra è una delle poche attività umane a cui la gente non guarda in modo realistico; ovvero valutandone i costi o i risultati. In una guerra senza quartiere, le risorse vengono spese senza alcuna prudenza. La guerra è pura emergenza, in cui nessun sacrificio sarà considerato eccessivo”. I malati diventano le inevitabili perdite civili di un conflitto e vengono disumanizzate appena “perdono il loro diritto di cittadinanza da sani per prendere il loro oneroso passaporto da malati”. La Sontag sostiene, a buon diritto, che la metafora della guerra carica il malato di sensi di colpa e ne ostacola il percorso di guarigione. Il malato non si arrende al “nemico”. Se muore non è una “sconfitta”. Se supera la malattia non lo fa per meriti militari ma perché è stato curato bene. Per dirla con l’interpretazione offerta da Vittorio Lingiardi e Guido Giovanardi sul Sole 24ore, la Sontag “afferma che le metafore belliche in realtà sono figlie di una logica che rischia di renderci ancora più passivi e spaventati, impedendoci di cogliere le complessità sociali, politiche e culturali dei fenomeni medici. Il risultato è la rappresentazione di una lotta impari, che ci spinge a cercare soluzioni drastiche e autoritarie per proteggerci dal nemico e sentirci lontani dal fronte”.
A tal proposito ad una presunta guerra, come quella combattuta contro il Covid-19, corrisponde la creazione del mito degli eroi, in questo caso impersonificati dagli operatori sanitari impegnati nell’affrontare l’epidemia. Pur riconoscendo l’abnegazione e l’enorme valore del lavoro svolto da questi ultimi, non si può non stigmatizzare il ricorso ad una categoria, quella degli eroi appunto, che inevitabilmente toglie dignità al ruolo di lavoratori qualificati, mal pagati e non messi in condizione di operare adeguatamente. Tale scelta lessicale deresponsabilizza, attraverso l’attribuzione di una qualifica che rimanda l’immaginario a gesta prodigiose e meriti eccezionali, dai tremendi tagli subiti dalla sanità – 37 miliardi in meno in 10 anni, arrivando ad 8,5 posti in terapia intensiva ogni 100mila abitanti contro i 29,2 della Germania – realizzati dai diversi governi che si sono succeduti, che hanno messo in ginocchio il Sistema sanitario nazionale. Ancora rimbombano le parole di quel medico lombardo: “Basta con questa metafore dell’eroe, non sono un militare in Afghanistan sotto le bombe, faccio solo il mio lavoro e voglio essere messo nella condizione di farlo”.
Un diretto corollario di quest’ultimo argomento riguarda le spese militari. La guerra smette di essere una metafora efficace nel momento in cui si è costretti a prendere atto che la spesa destinata all’acquisto di novanta F35 sarebbe stata sufficiente per allestire numerosissimi posti di terapia intensiva. A questo dato si aggiunga che in Italia, prima dell’inizio dell’epidemia, si contavano oltre duecento aziende produttrici di armi e una sola di ventilatori polmonari.
Un ultimo aspetto da analizzare, avverso lo sdoganamento del linguaggio bellico, riguarda il rischio di depotenziamento della democrazia in quanto la “guerra” rappresenta lo stato di eccezione per eccellenza. Il filosofo Giorgio Agamben, tra gli altri, ha messo messo in guardia contro lo “stato di eccezione” permanente nel quale rischiano di cadere le procedure democratiche durante la pandemia. Di fronte allo sforzo bellico ogni cedimento democratico è infatti considerato una debolezza, ed è necessario ricorrere a uomini forti, dotati di “pieni poteri”, con provvedimenti liberticidi, ma giustificati in quanto dotati di necessità ed urgenza, come dimostra le scelta ungherese di esautorare il parlamento dal suo ruolo e accentrare tutti i poteri nelle mani del premier Orbàn. Con la scusa di combattere il Covid-19, gli autocrati di tutto il mondo stanno cementando il proprio potere a discapito di minoranze e società civile. Se si pensa che finanche nella democratica Inghilterra un disegno di legge ha previsto di conferire al govero poteri “mai visti prima in tempo di pace” si capisce la portata del pericolo: quanto più profonde e durature saranno queste sospensioni della democrazia, tanto più rischiano di diventare ovunque permanenti.
Occorre riflettere bene prima di invocare l’intervento dell’esercito con tanta facilità. Sdoganare la restrizione delle libertà con l’intervento militare, con controlli lesivi della privacy, significa anche rischiare di assuefarsi alle logiche conseguenze dello stato di guerra permanente che, inevitabilmente, legittima la limitazione delle informazioni e divide le persone tra amici e traditori. Ricorrendo ancora una volta ad una citazione,“La guerra come metafora morale è limitata, limitante e pericolosa. Circoscrivere l’azione a una “guerra contro qualcosa”, significa dividere il mondo in Me o Noi (buoni) e Loro o Voi (cattivi), riducendo la complessità etica e morale delle nostre vite a una logica binaria Sì/No, On/Off” (Ursula K. Le Guin, Il mago di Earthsea).
Ma, soprattutto, la metafora della guerra è profondamente sbagliata perché nasconde il concetto più importante, legato ad una pandemia, ossia il prendersi cura l’uno dell’altro, un concetto che non può che essere agli antipodi della guerra. Nell’impegno collettivo contro la pandemia non sono dunque i valori militari a dover essere esaltati ma le virtù civili della solidarietà e dell’empatia perché la cura necessita di prossimità, di compassione, di delicatezza, di ascolto, di pazienza e perseveranza.