Una riflessione a partire dalla vicenda politica ed esistenziale di Agostino Casati

Il 25 aprile quest’anno è stato vissuto in maniera diversa per le vicende legate al Covid-19, ma certamente in modo più genuino e soprattutto meno retorico: segnali in tal senso sono stati la significativa visita solitaria del Presidente della Repubblica, almeno per l’Italia, e il canto spontaneo di Bella Ciao in vari paesi del mondo e in diverse lingue anche non europee, come l’arabo ed il cinese ad esempio e alcune del continente africano, fatto questo che da solo sta indicare i valori universali impliciti della Resistenza, spesso dimenticati. Non sono poi mancati  sui social e giornali articoli che ne hanno sottolineato la dimensione europea col ricordare il sacrificio di molti giovani che sacrificarono la loro vita insieme al ruolo avuto da alcune figure che hanno scritto pagine non comuni e poi rivelatesi decisive per la ricostruzione successiva a partire dalla Costituzione; anche ‘Odysseo’ di sabato 25 aprile nell’articolo ‘Il comandante Rajmond’, grazie a Domenico Canciani, ha voluto  ricordare una figura di un  suo parente, Agostino Casati, un uomo che partito da umili condizioni per tutta la vita ha combattuto per gli ideali di libertà e di eguaglianza, ideali tra l’altro trasmessi dall’insegnamento di un sacerdote.

La vita di Agostino Casati (1897-1972) è emblematica di una intera generazione che, da semplice operaio delle ferrovie, ha coltivato la speranza di un nuovo mondo più giusto e attento ai bisogni delle categorie più svantaggiate; ha vissuto lo sfaldamento morale prima ancora che politico del regime liberale, il biennio rosso, l’avvento del fascismo, la partecipazione alla  fondazione del partito comunista con la diretta conoscenza di Antonio Gramsci, l’esperienza della clandestinità sotto falso nome in varie parti d’Italia, l’espatrio in Francia e nell’Unione Sovietica, la guerra civile spagnola, il ritorno in Italia con l’arresto a Ventotene, la liberazione dopo l’8 settembre del 1943, la partecipazione alla Resistenza, ed in seguito l’elezione a sindaco di Rho, il suo paese. Canciani,  attraverso i suoi ricordi diretti e anche indiretti di chi lo considerava una ‘persona per bene’ pur non condividendone l’appartenenza politica, ne ripercorre le fasi salienti  di ‘rivoluzionario professionista’, ma fasi  tutte caratterizzate da quell’anelito di libertà non disgiunto dall’esigenza di una trasformazione delle condizioni sociali  del paese Italia; e questo fatto, cioè l’avvertita necessità insieme etica e politica di un cambiamento ab imis delle strutture istituzionali e civili della nazione e della stessa Europa, fu non solo appannaggio di una certa élite culturale italiana, laica e cattolica, ma  un elemento in comune di tutti coloro che hanno combattuto il fascismo prima e il nazifascismo dopo.

Questo aiuta a capire meglio quel senso di delusione, di cui sono stato testimone, manifestato dal Prof. Bruno Widmar in più occasioni, per essere stato suo diretto collaboratore per oltre dieci anni negli anni ’70, e  impegnato nelle fila di Giustizia e Libertà durante la guerra di Liberazione nel Piemonte Sud Orientale; ma tale atteggiamento era ritenuto presente tra gli anni ’70 e ’80 anche in altre figure che  avevano  rischiato la propria vita nella lotta partigiana, sacrificando così i loro migliori anni della vita. Queste figure, come tante altre, hanno vissuto la ricostruzione del paese con la speranza di un cambiamento sostanziale, sempre  in senso democratico, delle varie strutture dello Stato, il che non è avvenuto secondo le loro aspettative nonostante l’avvento della Costituzione pure orientata in modo significativo in tal senso. Certamente su questo hanno influito cause esterne come la guerra fredda, che  divise il mondo in due blocchi  ma che non poteva giustificare quello che definivano ‘democrazia sospesa’  sino ad arrivare alla amara conclusione che l’Italia  era un paese ‘irriformabile’ pur in presenza di riforme rilevanti come quella sanitaria e lo statuto dei lavoratori; non a caso  queste figure avevano previsto in anticipo i limiti  del centro-sinistra che, pur visto come una occasione per rendere il paese più moderno e  democratico, si andava innestando su un solco quasi tetragono ad ogni cambiamento di fondo donde il sostanziale fallimento a partire dalla mancata riforma fiscale e da quelle scolastica ed universitaria, considerate strategiche per la democrazia, riforme che ancora oggi sembrano lontane. Poi lo stesso terrorismo degli anni ’70, la nascita delle brigate rosse, il rapimento di Aldo Moro, il ruolo delle mafie, le degenerazioni della partitocrazia  venivano spiegati come l’esito quasi inevitabile di questa democrazia incompiuta per la quale comunque bisognava ancora combattere per renderla più vitale.

Però, prima di morire nei primi anni ’80, tali figure  di fronte a questi eventi sono arrivate a dire che il loro sacrificio e soprattutto in primis quello di coloro che avevano perduto durante la Resistenza la vita erano stati quasi inutili e che se avessero potuto prevedere quale sarebbe stata l’Italia degli ultimi anni, se ne sarebbero stati comodamente a casa, come fecero del resto alcuni o per estremo realismo o per mancanza di solidi ideali. Ma come diceva Hannah Arendt, i fatti, cioè la Resistenza  in questo caso, una volta accaduti per qualsiasi  motivo, acquistano una loro specifica ‘resilienza’ con cui confrontarsi criticamente; ma è un ‘fatto’ anche questa delusione manifestata da tali figure che non va sottovalutata e ponderata nel suo giusto spessore in quanto può essere un monito per noi oggi sia per evitare il più possibile visioni deformanti delle vicende accadute e sia per non cadere  in vuote celebrazioni retoriche che a volte si fanno per chiudere gli occhi di fronte ai problemi reali.

Nello stesso tempo è sempre salutare tenere presente l’esperienza di Agostino Casati basata su solidi ideali con l’obiettivo di realizzarli, come ha fatto Canciani, e di altri noti e di molti per lo più ignoti, uomini e donne che, silenziosamente a volte  come nei campi di concentramento, hanno ritenuto ineluttabile combattere con le armi  che avevano a disposizione  da quelle materiali a quelle spirituali, morali e intellettuali il nazifascismo perché considerato qualcosa come sorto contro i valori che l’umanità per intere generazioni aveva coltivato e che per un certo periodo aveva messo da parte. Ma l’homo democraticus non si deve limitare a prendere lezione dai fatti per evitare ricadute in regimi autoritari che sotto varie forme sono sempre in agguato,  ma deve cercare anche di essere un attento osservatore e a volte uno spietato analista delle mancanze del suo operato, che a volte generano delusioni, ‘fatti’ determinati appunto dal non essere stato pienamente democratico in molte scelte e circostanze, così come gli ideali autenticamente democratici pretendono che debba essere.

TRA LA RUGOSITÀ DEL REALE

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Mario Castellana, già docente di Filosofia della scienza presso l’Università del Salento e di Introduzione generale alla filosofia presso la Facoltà Teologica Pugliese di Bari, è da anni impegnato nel valorizzare la dimensione culturale del pensiero scientifico attraverso l’analisi di alcune figure della filosofia della scienza francese ed italiana del ‘900. Oltre ad essere autore di diverse monografie e di diversi saggi su tali figure, ha allargato i suoi interessi ai rapporti fra scienza e fede, scienza ed etica, scienza e democrazia, al ruolo di alcune figure femminili nel pensiero contemporaneo come Simone Weil e Hélène Metzger. Collaboratore della storica rivista francese "Revue de synthèse", è attualmente direttore scientifico di "Idee", rivista di filosofia e scienze dell’uomo nonché direttore della Collana Internazionale "Pensée des sciences", Pensa Multimedia, Lecce; come nello spirito di "Odysseo" è un umile navigatore nelle acque sempre più insicure della conoscenza.