Antropologia di integrazione

Come al solito ogni mattina esco presto per eseguire la routine quotidiana: il solito bar, caffè, giornale, salutare gli amici e partire per il lavoro.

Quella mattina, mentre camminavo lungo il Corso, ho sentito il rumore di un motore che iniziava a rallentare dietro di me, mi sono voltato ed era Paolo (nome di battesimo che in albanese significa “Guerriero”). Ci siamo salutati affettuosamente: “Buongiorno, Paolo”, “Buongiorno, Niko! Tutto a posto?”, “Tutto a posto”, mezzo in albanese e mezzo in italiano, ridiamo.
“Hai tempo per un caffè?”, “Oggi sì, dai, vengo ospite da te, oggi” dico io, e giro per salire in macchina. Arriviamo al “suo” bar.  Pioviggina. Dico: “Almeno serve a qualcosa?”, indicando con testa in su. Alludo alla pioggia come occasione per vederci; nel tempo ho coniato due battute: “Se vuoi incontrare gli Albanesi, trova un giorno di pioggia, perché usciamo come li cuzzieddë (le “chioccioline”, ndr); e l’altra: “Quando piove, non possiamo fare i muri a secco… perché escono bagnati!”.
Ridendo, entriamo al bar e salutiamo, l’amico mi chiede: “Cosa prendi?”, “Il caffè”, “Il caffè va bene”. “Beh, come va a casa, come stanno di là (Albania), come va il lavoro?”. Queste sono le solite domande un po’ per tutti, ci vediamo di rado perché ognuno bada e si impegna nel suo corri-corri generale, abbiamo poco tempo e ogni volta che ci vediamo facciamo un “aggiornamento”.
Gli chiedo dei figli, come stanno. Mi dice che stanno bene, anche con la scuola: “Uno sta frequentando già un’università prestigiosa, ingegneria, l’altro, il piccolo, sta facendo  le medie e sono contento, vanno bene…” e mi racconta – sorridendo – del piccolino, “che ha problemi con l’italiano… i voti sono buoni, ma la maestra è convinta che la pronuncia non vada bene… però lei ancora non sa pronunciare il nome e il cognome di mio figlio!… siamo abituati oramai: siamo stranieri)”. Mentre continua a parlarmi di lui (che è un campione di nuoto e non tralascia nulla sia nel campo dell’informatica che quanto agli svaghi dell’età, lamentando solo che legge poco), sorseggiando il caffè mi compiaccio con lui e gli chiedo di nuovo di come va il lavoro…

Mentre paga gli dico che lo stavo pensando, sempre per un discorso lasciato a metà per quanto riguardo il mio interessamento degli Albanesi nella lavorazione della pietra, e che forse è la giornata per continuare quel discorso”. “Mi sa di sì” afferma, “io sto andando in campagna, che dici?”. Cogliamo l’occasione e partiamo per la sua campagna, mi spiega che quando il tempo è  brutto si dedica a fare qualcosa lì. Mentre ci avviciniamo all’ingresso e aspettiamo  che il cancello elettrico si apra del tutto, noto i muri a secco di cinta fatti ad hoc, “con lu cappieddë n’susë” (“con la testa all’insù”, ndr) come si facevano una volta, belli! Molta gente per motivi economici e anche dei “furti” non mette più il cappello classico, li lascia piani per aggiungere dopo la rete metallica dopo completarli in questo modo.

È un cantiere; intorno è  tutto ordinato. Più avanti si vede un piano di fuoco per barbecue e un forno. Sono in costruzione. Mi spiega che quando ha tempo si dedica alla campagna: “Questo è il mio regno, alcune volte quando  qualcosa mi va storto sul lavoro vengo qui e mi scarico”. Si giustifica che non si dedica a tempo pieno, “vengo e mi sfogo perché a un certo punto non ho a chi dirlo e a casa non li porto i problemi del lavoro”.

Mi parla del piacere e del godimento dell’andare in campagna; mi dice che per quanto riguarda la cucina nostra, quella albanese (cucina che usa molto i cibi cotti al forno e alla brace), vuol realizzare un barbecue/forno funzionale (non tanto per abbellimento) e mi chiede un parere.
Dopo avergli argomentato il mio pensiero sia tecnico che estetico, mi sono soffermato sulla funzionalità pratica e l’agevolazione delle azioni di lavoro sul piano di cottura.

Facciamo due passi e mi fa vedere l’estensione del terreno, spiegandomi che prima non c’era nulla e che tutte le pietre del muro di cinta – rigorosamente a secco – sono uscite dalle buche fatte per piantare gli ulivi e per fare la cisterna. Nulla è lasciato al caso. Tengo presente e ammiro la sua parsimonia e il suo modo di fare anche se in Albania non faceva il muratore o i muretti.
Gli ulivi sono di una ventina di anni e sono stati trapiantati e tutti sono riusciti con successo; mi fa vedere che dopo tanti anni ha fatto la prima vera “rëmonna” (“potatura”, ndr). Approvo il suo sistema di potatura e mi congratulo con lui del bel lavoro svolto. Mi invita verso la macchina e mi fa vedere il rendering della Villa. Mi spiega il suo sogno e dice “qua mi voglio ritirare! per i figli: credo che il piccolo mi accompagnerà perché gli piace. Almeno tre mesi d’estate stiamo qui. La tranquillità e il da farsi in campagna, spaziando senza preoccupazione, sono piacevoli e noi lo viviamo per passione, non tanto per moda”.

Vedo, in effetti, la passione e la spinta di una persona che il suo ricavato di lavoro come esperienza e risparmio lo ha investito sul recupero del luogo, un luogo (la campagna) che in questo periodo storico a nessuno piace ed è stata abbandonata da tempo …non parlo naturalmente della campagna con il prato inglese, quella dove l’acqua si spreca per produrre niente. “La campagna la voglio vivere”, dice, “io dalla campagna vengo e sono orgoglioso”, istintivamente con la mano indica il giardino con le fave fiorite.

“A me piace” spiego, “condivido il tuo pensiero, senza falsità” e gli faccio vedere le mie foto dove documento modi di fare e tradizioni del luogo, cose di mio interesse. Gli parlo del mio recente articolo (riflessioni in occasione della ricorrenza dello sbarco degli Albanesi nel porto di Brindisi nel 1991)  leggendogliene qualche passaggio e concludendo: “Noi siamo quelli delle barche e dei gommoni, ma da nessuna parte si è scritto o fatto vedere la nostra storia. Una storia dell’Italia che si alza ogni mattina per costruire un futuro ai propri figli da zero, e per far quadrare i conti a fine giornata (e degli Albanesi in Italia sappiamo benissimo, siamo stati e stiamo qui, da molto tempo). Credo che siamo la cosa migliore che potesse capitare al Paese e alla nostra città”. Sorride approvando, quindi aggiunge: “Sono convinto che queste cose noi che le viviamo le sappiamo. Però necessita che questa cosa venga fuori, a conoscenza di  tutti, specialmente dei giovani che in questi tempi hanno bisogno di esempi concreti e non di demagogia”.

Andando verso l’entrata mi racconta del recupero (al contrario dell’indifferenza e dei pareri dei vicini) di due nicchie all’ingresso – posizionate in maniera opposta di altezza e lato – riservate un tempo ai “protettori” della casa: una riservata al Santo/a, l’altra alla cuccia del cane! Ridendo compiaciuto gli dico: “Sì, l’ho notato. Non ti ho detto niente, ma di sicuro non mi è sfuggita neanche la maestranza e la cura nel recupero, anzi, sapendo a che cosa servivano (servono) mi ha fatto piacere vederle”. Vogliamo o no, certi posti rimangono lì (gioco forza, o il caso…), realizzati da mani sconosciute, tra sacro e profano, aspettando – fermi nel tempo, vigili –  coloro che passano e bussano, e secondo il caso benedicendo o ammonendo, scodinzolando o abbaiando,  sentinelle del destino, ancor prima di quanto noi, comuni mortali, possiamo comprendere.

Il telefono squilla, risponde, dopo aver fissato un appuntamento con l’interlocutore, mi dice: “Mi devi scusare ma dovrei scappare, sai…”. “Lo so, ti capisco come me stesso” gli dico appoggiando la mano sulla spalla e indirizzandomi verso la macchina. Una volta partiti, gli confesso che mi ha fatto piacere averlo incontrato e aver passato con lui quei minuti. Augurandoci un “alla prossima”, ci lasciamo salutandoci in albanese. Nel frattempo raggiungo la mia macchina parando la pioggia con il braccio, metto in funzione i tergicristalli al ritmo della pioggia sul parabrezza, pensando ai viaggiatori, a quelli che viaggiano per una terra di approdo… fame, lavoro, famiglia, casa, figli, istruzione per migliorare la loro vita… penso a noi,  che con tenacia – mentre gli altri parlano di crisi e invasione di immigrati –  ci prodighiamo come tutti i nostri antenati: responsabili e basilari, fermi nei valori e coi piedi per terra, tradizionalisti perseveranti, nuovi pugliesi, futuri Italiani.