L’alfabeto di Dante
Prima di considerare il peccato di lussuria, un dato geografico: come nel primo regno i dannati lussuriosi abitavano il primo girone della voragine infernale, ad illustrare la grande distanza che separava il loro peccato da quelli ben più gravi di cui tragica rappresentazione è Lucifero, conficcato a testa in giù nel centro della terra, così nel purgatorio i lussuriosi abitano l’ultima balza, la più vicina al Paradiso terrestre che è posto sulla sommità del monte. La disposizione dei luoghi che accolgono i lussuriosi, dunque, ci fa comprendere quanta considerazione Dante abbia avuto per l’amore. Quest’ultimo, infatti, può essere causa di eterna condanna, o di temporanea purgazione, solamente se vissuto senza l’ausilio della ragione. L’amore, se in un processo di sublimazione diventa carità, ci porta a Dio; al contrario, se consumato egoisticamente nell’angusto spazio di una passione senza freni, da Lui ci allontana. Tuttavia, anche se condannato all’inferno, esso rimane quel sentimento dolce e delicato e degno dell’umana pietà, come dimostra la partecipazione di Dante all’«affanno»dei due amanti infernali:
Quando rispuosi, cominciai: «Oh lasso,
quanti dolci pensier, quanto disio
menò costoro al doloroso passo!».
Poi mi rivolsi a loro e parla’ io,
e cominciai: «Francesca, i tuoi martìri
a lagrimar mi fanno tristo e pio. (Inf. V, 112-117)
Le parole del pellegrino danno voce al sentimento della dolcezza che in vita ha unito i due amanti e che li tiene insieme anche dopo la morte. Ma di colpo la dolcezza si tramuta in dolore: il «doloroso passo» è il momento in cui Paolo e Francesca si lasciano vincere dalla passione senza freni e da cognati diventano amanti. Ciò che preme sottolineare al poeta è dunque la necessità di usare la ragione, di saper porre un freno ai propri sensi, così come spigherà Marco Lombardo nei canti centrali del Purgatorio.
Riprendendo il tema dell’amore nella seconda cantica, il poeta immagina l’intera balza dei lussuriosi lambita da un fuoco che avvolge le anime. Chiaro il contrappasso: come il fuoco purifica e separa i metalli preziosi dalle loro scorie, così le anime dei lussuriosi lasciano che il loro amore troppo terreno si purifichi nel fuoco divino. Già l’Aquinate, riprendendo una sentenza di Gregorio, affermava che sotto una medesima fiamma l’oro si raffina e la paglia brucia, a significare le due valenze del fuoco, una purgativa e l’altra punitiva. Così anche in Dante. A differenza delle fiamme dell’inferno, però, odiate e temute quale castigo eterno, quelle del purgatorio sono volute e cercate dalle stesse anime, perché esse sanno che la sofferenza momentanea le «affina» (Purg. XXVI, 148), spogliandole delle scorie del peccato per predisporle alla felicità del cielo.
La pedagogia divina alla base della costruzione teologica del Purgatorio prevede che le anime elevino a Dio preghiere per la loro salvezza, e meditino su esempi di virtù opposte al vizio purgato. In questo caso, l’inno cantato dagli spiriti purganti ben si adatta alla rieducazione della loro sessualità:
“Summae Deus clementiae’” nel seno
al grande ardore allora udi’ cantando,
che di volger mi fé caler non meno;
e vidi spirti per la fiamma andando;
per ch’io guardava a loro e a’ miei passi
compartendo la vista a quando a quando. (Purg. XXV, vv.121-126)
Alcuni versi della terza strofa dell’inno (citandolo, si deve comprendere che sia cantato per intero) fanno appunto riferimento al peccato di lussuria, da cui le anime chiedono di essere liberate. Quanto agli exempla, il primo di essi fa riferimento alla Vergine Maria (come in ogni balza), mentre il secondo attinge alla tradizione mitologica:
Appresso il fine ch’a quell’inno fassi,
gridavano alto: ‘Virum non cognosco’;
indi ricominciavan l’inno bassi.
Finitolo, anco gridavano: «Al bosco
si tenne Diana, ed Elice caccionne
che di Venere avea sentito il tòsco».
Indi al cantar tornavano; indi donne
gridavano e mariti che fuor casti
come virtute e matrimonio imponne. (Purg. XXV, 127-135)
«Virum non cognosco» – «non conosco uomo» – sono le parole con cui Maria risponde all’angelo, rimarcando la sua verginità. Ad essa segue Diana, che sceglie di ritirarsi nel bosco per custodire la propria castità. Nel sincretismo culturale generato dall’incontro della mitologia classica con la teologia cristiana, Dante, se pur ancorato alla mentalità del suo tempo, propone un modello di amore che non si esaurisca nella ricerca egoistica del proprio piacere. Considerando il proprio corpo alla stregua di una “cosa” che si può comprare e vendere, l’uomo diventa merce; al contrario, aprendosi all’alterità dell’amato, egli fa esperienza di un esodo da se stesso, fino al dono del proprio corpo.