Quando il sudore e il gioco di squadra pagano: e fermano alcool e droga.

Quando il sudore e il gioco di squadra pagano: e fermano alcool e droga.

Il 3 luglio è stata una data triste per l’Islanda, l’isola più a nord d’Europa, terra di vulcani e aurore boreali, ove i giorni di buio sono di gran lunga superiori a quella di luce. Il 3 luglio si è concluso, amaramente, l’epico viaggio nel torneo continentale di una squadra che in pochi conoscevamo, ma che è stata la cenerentola per la quale ogni Paese ha simpatizzato.

L’Islanda è una terra in cui tutto può accadere: conta poco più di 320 mila abitanti, per intenderci, Firenze ne ha 40 mila in più, e il suo campionato dura poco meno di 5 mesi, per questo il raggiungimento dei quarti di finale ha sapore di gran vittoria.

Una terra costituita da 320 mila fratelli, sì, perché in Islanda non vi sono distinzioni tra ricchi e poveri né tantomeno tra politici e contadini. Esempio chiaro è stato dato da Gudni Johannesson, presidente della nazione islandese, il quale ha seguito le ultime emozioni dell’epopea vichinga sugli spalti, assieme ai suoi connazionali. Ciò è stato alla base della rincorsa vincente islandese: l’unione, la compattezza, l’assenza di distinzioni, un po’ quello che si è intravisto nella nazionale italiana, se si è escludono i soliti gufi e i perenni critici che non si identificano mai, neanche in questi momenti, nel patriottismo italiano.

Gudni Johannesson, ha rifiutato il red carpet della tribuna d’onore, ha voluto la curva, mediastino della sua patria, dal quale si ergono le urla e il battito di mani che intonano le note del Geyser Sound, tipico inno d’assalto vichingo. Quasi un panegirico che ha il suono di un calcio privo di secondi fini, di interessi economici, di un calcio vecchio, quello che ci piace, quello che emoziona, quello pulito, quello fatto di magliette bagnate all’inverosimile di sudore e di calciatori che magari non sempre vantano una grossa tecnica, ma che non smettono mai di correre e sacrificarsi, tutti insieme, per la squadra e per la maglia.

Da circa tre lustri il Governo Islandese ha deciso di puntare sullo sport, considerando la grande fisicità dei suoi abitanti, dal momento in cui si presentò agli europei di Belgio e Olanda del 2000, riuscendo a qualificarsi come quarta nei gironi da sei e strappando addirittura un pareggio alla formazione di Zidane, poi vincitrice del torneo, in finale con l’Italia. Da quel momento ebbe principio la costruzione di campi e stadi al coperto, per combattere i fenomeni naturali di quella terra. Il vero obbiettivo però era un altro, in quanto il vero scopo era contrastare l’alcolismo e droghe, i quali spopolavano tra i più giovani. Con questa politica, l’Islanda ha maturato dei gran frutti, uno degli ultimi è il raggiungimento dei quarti di finale nell’Europeo di Francia.

La qualificazione è già qualcosa di meraviglioso, ma il passaggio agli ottavi, mettendosi dietro la nazionale portoghese di CR7, è qualcosa di leggendario. È la killer delle grandi, di fatti l’ultima a pagarne le spese è stata l’Inghilterra, una delle pretendenti allo scettro. Tutti hanno terrore del Geyser Sound, tutti temono la fisicità di Bjarnasson & company, nessuno riesce a contrastare la tattica all’italiana del C.T. Lagerbäck.

Il capitano Aron Gunnarsson, dal tipico fisico vichingo, fatto di muscoli, barba lunga e tanta ma tanta corsa, guida il Geyser Sound per l’8% della popolazione presente allo stadio e per il 99% di coloro rimasti in patria incollati al maxischermo: i vulcani iniziano ad eruttare, il cielo si tinge di rosso, un lunga vibrazione spacca il continente a dimostrazione che loro non sono qui di passaggio, a dimostrazione che loro non sono una favola, ma una realtà lieta priva di epilogo.