Eravamo nella città dalle strade e mura blu, ad un centinaio di chilometri da Tangeri in Marocco, a Chefchaouen.
Non ti ho mai dimenticata Anissa.
Mi raccontavi che quel colore era l’invenzione bizzarra di un popolo che combatteva con delle feroci zanzare, quel colore le teneva lontane. Sorridevi. Camminavamo per mano. Il sole scottava. Avevamo viaggiato per circa 6 ore da Casablanca. Volevi salutare tua nonna, ti mancava. Tuo padre, in Italia, ti aveva minacciata, ti avrebbe tagliata la gola se mi avessi ancora frequentato. E non ti importava, eri serena. Leggevi i miei libri venivi a casa e ne prendevi due, tre alla volta, mi chiedevi piccoli riassunti, sceglievi i protagonisti.
Eri stata costretta alla prigionia dell’islam per tanti anni ma al momento giusto ti eri ribellata, mettendoti contro tutta la famiglia. Tua madre era una sottomessa senza coscienza, le tue sorelle schiave obbedienti. Tu eri diversa. Più importante della lacrima che non avvisa la caduta, della polvere che ricorda agli uomini la loro assenza.
Nel 1992, un luglio caldo, prendevo un gelato con degli amici. Avevi i capelli lunghi e scuri, mossi, un viso rotondo e degli occhi nocciola. Un corpo che sembrava un piccolo miracolo. Non avevo mai avuto il cuore in gola. Sono stato solo capace di fissarti, tu hai sorriso. Non avevo mai avuto un cuore. Mi hai messo il gelato nelle dita, sfiorandomi. Il cuore era un treno che non aveva necessità di binari. Sono tornato in quella gelateria ogni giorno. Sono stato in grado di poche parole. Non sapevo parlare. Non avevo mai parlato prima, solo intrattenuto per necessità sociale.
Dopo due settimane mi hai rivolto poche parole: “ti decidi a chiedermi un appuntamento? Quanto stai spendendo?”. Io ho sorriso. Non avevo mai sorriso prima. Sorridere mi piaceva. Non mi sembrava sprecato come le altre volte. Ogni centimetro del mio corpo avevo un senso. Ogni centimetro del tuo corpo era perfetto come le foglie, i fiori, il vento, il mare. Riempiva senza il possesso. Il senso della vita. Possiedi solo te stesso. Ti ho chiesto un appuntamento.
Una maglietta e la forma dei seni, una gonna e la forma del sedere. Le tue parole, la tua intelligenza e la forma dell’anima. Fumavi. Tuo padre ti aveva minacciata anche per quello. Parlavi francese e inglese, un italiano splendido. Avevi 18 anni. Vivevi con una amica, una stanza arredata, in un palazzo che sembrava stesse per crollare. Ho fatto fatica a trattenere lo stupore, da fuori un tugurio, dentro pulito e profumato. Guardiamo e cerchiamo quasi sempre nel posto sbagliato.
Tuo padre ci aveva visti assieme e ti aveva ancora avvisata che l’uomo occidentale è un maiale. Tu avevi girato le spalle come sempre. Non avevi paura di niente. Eri libera. Io ti ammiravo, mi bevevo la tua voce, mi mangiavo i tuoi occhi, le tue labbra, le tue mani piccole con le unghie colorate. Un giorno sei venuta a salutarmi in palestra, avevi il rossetto viola e una scollatura che mi ha distratto tanto da procurarmi un pugno in viso. Hai urlato e ti sei coperta subito dopo la bocca con una mano. Tutti ridevano. Mi hai lanciato con una mano un bacio.
Tuo padre ci ha fermati per strada. Mi sono messo tra te e lui. Ho fissato tuo padre negli occhi. Gli ho detto: “dopo sua figlia non ho altro, nulla da perdere”. Ha fatto il segno di tagliare la gola. Gli sono andato incontro, l’ho afferrato per un braccio, gli ho preso il collo e l’ho sbattuto di schiena su di una macchina parcheggiata. Tu hai gridato, volevi fermarmi. La violenza per te era solo la forza dei deboli. Sei andata via, lasciandomi solo. Tuo padre è scappato. Io fermo, immobile.
Tu eri già te stessa. Io mi cercavo tra pene infinite. Scricchiolava di vuoto l’aria se non camminavi. Le porte restavano chiuse a custodire un nulla inservibile. Tuo padre ti ha raggiunta. Io non c’ero. Non me ne faccio una ragione. Sorella morte, la chiamavi. Io non riuscivo a dare un nome alle cose più grandi di me. Ho guardato ovunque, senza trovarti, non c’era una copia di te. Mi sentivo solo. Mi sento solo ancora oggi, ricordandoti.