«I ragazzi di oggi, abituati a tanti strumenti di comunicazione, se messi davanti alla lettura di un testo dapprima analizzato e poi scandagliato, se messi nella condizione di ripercorrere l’esperienza estetica che lo stesso autore ha percorso per realizzarlo (perché quella è arte), allora riscoprono che in quei testi si depositano esperienze umane profonde.  Il centro è la persona umana ed anche gli scrittori della letteratura italica (non solo italiana e quindi  tanto antica latina, quanto contemporanea) sono persone che hanno raccontato la loro vita. Quando gli alunni meditano sul foglio, sulla parola, allora ne scoprono il potere. Ed a proposito del  Potere della Parola, ricordo che proprio Gramsci in “Letteratura di vita nazionale” afferma che quando si dà ad un giovane, un bambino, il potere della parola, gli si dà un POTERE, perché attraverso la parola si fa tutto, anche politica; si capisce la politica. Ed ecco che si comprende cosa ci viene venduto, cosa ci viene imbonito e si smette di nutrire generazioni di servi»

(Voci di luglio 2019, Convengo nazionale MIEAC, La Verna, Toscana, Italia)

 

Inverno 2019, whatsapp in filo diretto Acquaviva della Fonti – Domodossola.

“Ti ho inviato la locandina. Andiamo?”.

Passi d’uomo, impronte divine. L’educazione per una rigenerazione dell’esperienza umana.

Finita così, da quel giorno nessuna organizzazione ulteriore per mesi.

“Ehi, ma dobbiamo fare i biglietti del treno?”.

“Assolutamente sì, fai tu però, perché io non ho il tempo di respirare”.

Da quel giorno solo una mail con i biglietti Trenitalia per due persone ed ancora nessuna organizzazione ulteriore per mesi.

Così come d’uopo in questo legame: niente direttive, niente regole, niente approfondimenti. Solo, d’improvviso, l’incoscienza. Tu chiami? Io vengo. Io vengo? E allora noi andiamo.

20 luglio 2017, la sera prima nemmeno ci si poteva sentire poiché i telefoni erano fuori campo. Che si fa? Ovvio, senza troppi fronzoli, ore 06:00 del mattino, puntuali in stazione.

“Ma veramente ce ne stiamo andando io e te? E dove di preciso? Perché?”-

Una risata lunga una vita con gli occhi fissi negli occhi ed una sola possibile risposta: “Boh! Camminiamo”.

Siamo noi, io e…? Uhm, com’è giusto definirla? Ok, io e la portatrice sana della mia autostima. Mi spiego, chiamandola convenzionalmente Mario, che viene da “Marionetta”.

Io e Mario-netta abbiamo le autostime scambiate: lei crede in me, io credo in lei, nessuna delle due prende mai sul serio sé stessa. Se siamo insieme? Una sorta di Zelig-off in formato didattico: questa volta, però, devo ammettere di aver imparato che, fossimo gente per bene, potremmo fare carriera.

Tornando a noi: Bari-Roma-Arezzo-Bibbiena-La Verna.

Ci siamo. Abbiamo viaggiato tante ore? Mah, non ce ne siamo accorte. Siamo planate nel Paradiso Terrestre? Non siamo morte, pare, ma sì, qualcosa di molto simile: silenzio, verde, tramonti, altra gente da osservare, humus da studiare, cellule vaganti di cui nutrirsi, porte di ascensori da prendere in testa.

Così è iniziata: la porta di un ascensore che le è finita dritta in fronte, mentre la gente normale si preoccupava e noi riuscivamo solo a ridere, ridere, ridere, tanto da mettere in scena una delle banalità più prevedibili della terra: bere acqua senza trattenerla, sputandola contro il muro perché quando ridi, si sa, non devi bere. Cioè, il mondo lo sa, io lo dimentico.

D’accordo, siamo a un convegno estivo nazionale, siamo due insegnanti in mezzo ad altri insegnanti, formatori, dirigenti, prelati; stiamo facendo una cosa “seria”… ma noi siamo due pupazzetti, fra noi parliamo in dialetto stretto pugliese, amiamo metterci ad osservare il mondo e poi piangiamo e ci commuoviamo di continuo, basta il potere di un raggio di luce. Niente, siamo sceme e ne siamo consapevoli.

In buona sostanza, il mio mondo ha preso forma a 1200mt di altezza.

Un giorno, due giorni, mani che si stringono, sguardi che si incrociano, persone che si conoscono, esperienze che si srotolano, realtà che si sovrappongono, uniscono e non confondono.

“Guarda che dietro di te c’è un prete in alta uniforme che dorme”.

“Finiscila!”.

Ecco che quel Don Piripacchio dice messa l’indomani e ci incrocia subito dopo, fuori, nella depandance dell’Eden. Mario-netta è al telefono e lui incalza:

“Basta parlare con il fidanzato! Godetevi questo posto”.

Cerco di parlare per lei, ero distante.

“Ma no, Don, parla con la sua bambina!”.

“Basta lo stesso! Tutto questo senso del dovere, basta! Disubbidienti ragazze, dovete essere disubbidienti”.

Gli corro incontro con lo sprint di una quindicenne (ah già, io fondamentalmente ho quindici anni), Mario-netta ride e capisce poco perché è distratta, lui è sornione:

“Paaaaadreee!!!! Posso stingerle la mano?”.

“Ma anche due!!!”.

“E lo dice Sofocle, Padre, non se lo ricorda nessuno!”.

Mi guarda quasi trasalendo e mi sorride con tutto il volto, nemmeno un muscolo si stava esimendo, mentre mi teneva strettissima la mano, con ambo le sue

“Dissubbidite!”.

E noi? Noi in realtà volevamo essere molto disubbidienti, lasciare tutto ciò che avevamo da fare ed infilarci in auto con lui, avendo capito dove stava andando e trovando la faccenda decisamente intrigante per i nostri strani gusti. Beh, come due scimmie, quali siamo, glielo abbiamo  detto!

Ahinoi quella traversata non è stata possibile. E vabbè, ciao ciao Don Piripacchio, in verità ti diciamo che ci sei proprio piaciuto!

Orbene, oggi? Oggi che si fa? Oggi si va a Barbiana ed ops, il Don viene con noi e non manca di apostrofarci:

“Se pensate che Barbiana sia una paese, dimenticatevelo!”.

Due ore di bus, tornanti di montagna da fare invidia alla mia valle di Heidi piemontese: “Aiuto il mal d’auto, posso morire”; però non muoio: dormo.

Don Lorenzo Milani lì ci è arrivato a piedi sotto la pioggia torrenziale, inviato in una minuscola chiesetta in mezzo ai monti del Mugello dove nulla esiste, nulla, se non il creato per come Dio lo ha voluto, nemmeno l’ombra di un angolo antropico, fatta eccezione per quella chiesetta ed una casetta. Una casetta con le viti e la piscina. Gli attrezzi da lavoro, il caminetto, il lavabo, il bagno con l’antibagno, gli sci di legno, il tabellone delle coniugazioni verbali ed i “boccacci” (che in italiano non si chiamano così, ma non fa niente) con i verbi da mettere al posto giusto, gli schemi del numero dei votanti nel corso della storia, la macchina per imparare la musica, l’astrolabio delle officine meccaniche dell’osservatorio astrofisico di Barbiana (per la latitudine di 43° 53’ 5” a nord dell’Equatore e per la longitudine di 11° 27’ 35” a est di Greenwich).

Noi ci siamo arrivate camminando; no, falsità. Io ho camminato molto meno di Mario-netta, sono terribilmente fuori allenamento e ho chiesto un passaggio; una volta giunta in cima, mi sono rivolta a Don Piripacchio che era in auto:

“Don, per favore, scende a prendermela? Sarà stanchissima! Ci sono 40 gradi ed è tutta salita!”.

Ci è andato e le ha detto con accento ironico a metà fra il romano ed il napoletano:

“Andiamo va, lassù c’è l’amica tua, disperata, che ti vuole”.

Ma al di là delle nostre modalità di arrivo, sapete in verità cosa stava accadendo? Le fotografie in bianco e nero che eravamo abituate a vedere ogni volta che ci parlavano di Don Lorenzo Milani, o che sceglievamo di guardare andando ad approfondirne la storia, semplicemente, stavano prendendo vita e colore.

A Barbiana tutto, tutto è esattamente così com’era. Una salto sulla macchina del tempo del Doctor Who per ritrovarsi ad anni prima, senza alcun “odore” di vecchio, dove tutto è povero e niente è misero. Ogni singola immagine di quella storia esiste, è lì abbarbicata in mezzo al paesaggio brullo e solitario e la sensazione pregnante ed immediata è solo una: adesso spunta Don Lorenzo dalla cucina.

Del resto, invece, era davvero spuntato Pietro, uno strano Leonardo Pieraccioni, alunno di Don Lorenzo e, c’è poco da fare, era lì con noi e ci raccontava la sua vita. Semplicemente aneddoti di quella fotografia in bianco e nero, che lo ritraeva con i calzoni bianchi e la maglia a righe e che di bianco e nero non aveva ormai più nulla.

Non che sia stato sempre facile seguirlo, fra le C aspirate, gli “adoprare” danteschi e le narrazioni rapenti (non mi dite niente, l’ho cercato questo participio presente. Mentre scrivevo ero in treno con due docenti, io tecnicamente faccio anche finta di essere una docente, ho chiesto consiglio e poi siamo scoppiate a ridere: “quanto è brutto rapente, ma rapente si dice”).

Divagazioni linguistiche a parte, il fascino della vita vissuta, chissenefregadelturismo, era lì a nostra disposizione: un ragazzino poco più che cinquantenne che ricordava tutto, ci stava restituendo Don Lorenzo, o molto più realisticamente, ci stava restituendo la sua vita.

Sapete, un dì Pietro (che era un alunno di Barbiana un po’ meno povero degli altri) disse al suo compagno Francuccio: “ho la televisione” e la cosa finì lì.

Passarono diversi giorni, si trovò a passeggiare con Don Lorenzo e da lui si sentì dire: “te tu hai fatto una ‘azzata grande quanto una ‘asa” (così lo ha riportato), “hai detto a Francuccio che hai la televisione. Suo padre, in questo momento, non potrà mai permettersi una televisione, il verbo “ho” non lo devi usare, Pietro” , e lui non lo ha mai più “adoprato”.

Così come in quella chiesetta. Entrando a destra c’è Santo Scolaro. Sì, sì, lo avranno visto in molti che è un mosaico, ma sapete? Lì un tempo troneggiava un grandissimo Sacro Cuore ed a Pietro, con i suoi compagni, toccava cambiare l’olio della lampada. Ne avevano paura, era buio, sembrava un grande fantasma. Bene, Don Lorenzo che non aveva nessun interesse a far spaventare i ragazzi che per una vita amò più di Lui, fu pronto a far sostituire il Sacro Cuore con quel Santo Scolaro insegnando loro l’arte del mosaico tedesco, non ancora giunta in Italia. Lo hanno fatto, ma non erano capaci di ricostruire un volto: “beh, niente di più semplice. Facciamogli la faccia immersa in un libro, così risolviamo il problema”.

Questo, questo insegnava loro Don Lorenzo: l’arte di riflettere, di adoprare cervello e parola, di apprendere ad imparare, per comprendere il mondo e poi iniziare a cambiarlo. Accusato di essere uno schiavista, nella bocca di Pietro non c’era questo dettaglio in nessuna parola: quel ragazzino cinquantenne, in realtà, un tempo faticava ad andare via da scuola, perché quando scoprì che si poteva imparare ad imparare la vita, non ci fu più giocattolo che potesse tenere.

Ah già, vi avevo detto che lì c’era una casetta e che aveva la piscina: sottoscrivo, è la verità. Quei ragazzi dovevano vincere la paura dell’acqua, non l’avevano mai intesa come luogo in cui nuotare, non avrebbero potuto, figli dell’entroterra quali erano: per questo era stata costruita quella vasca lunga e rettangolare, per volontà di quel priore che non dismetteva mai le vesti del sacerdote ed aveva voluto il piccolo antibagno proprio per potersi sempre cambiare e non farsi mai vedere dai suoi allievi, privo della sua talare.

Io e Mario-netta siamo uscite da quella casa quasi senza forze, con fonti di prima mano che sui libri non esistono, avevamo fatto un viaggio nel tempo e dentro le nostre emozioni, avevamo voluto essere lì ed eravamo state premiate. Cercavamo davvero, per trovare il vero davvero.

A quel punto,  devo riconoscerlo, era lecito avere fame.

Ci siamo sedute praticamente per terra davanti alla porta della chiesetta; è passato Don Piripacchio, che peraltro tanto Piripacchio non è (infatti, tanto per l’associazione del convegno, quanto per Roma, ha il suo ruolo socio-ecclesiale che noi, naturalmente, ignoravamo). Perché  tutti questi dettagli? Perché lascia un po’ imbambolate il rendersi conto conto che qualcuno di quella levatura ci era passato davanti, ci aveva guardate mentre mangiavamo e ridendo, indicandoci con l’intera mano aveva esclamato:

“Che coppia!”.

E se n’era andato.

Ci siamo  fissate a vicenda io e Mario-netta, abbiamo fatto spallucce con la bocca piena di pane e prosciutto, mentre cercavamo di capire cosa fosse quella macchia strana alla fine del mio vestito (non ve la racconto, non sarebbe edificante) e ci siamo dette ancora:

“A noi? Lui? Che coppia?”.

In buona sostanza stavamo mangiando sedute per terra a casa di Don Lorenzo e di tutti i suoi ragazzi, non solo tutto aveva preso vita, ma era lì, vivo e presente con e per noi tutti.

Dov’era la magia, in cosa consisteva il trucco? Perché ci sentivamo arricchite, osservanti ed osservate e, francamente, anche capite?

Quel “che coppia!” aveva un peso specifico; tutte le parole hanno un peso specifico preciso e possono creare ponti, come alzare muri.

Provate a pensarci: quando ci si occupa delle architetture sintattiche, si vede che attraverso le forme della lingua c’è una strutturazione della realtà. Che un’azione venga messa nella proposizione principale e non nelle circostanziali subordinate, è segno di una visione del mondo, un punto di vista. Dunque, non esiste solo il contenuto, ma esiste la forma del contenuto ed il contenuto delle forme. E le forme linguistiche, le parole, comunicano qualcosa, sono una macchina che bisogna imparare a guidare; non suonare ad orecchio, perché chi suona ad orecchio può anche farlo molto bene, ma chi legge la musica e lo spartito, fa i concerti ed anche compone, dando il suo personale contributo.

Ecco, sulla scia di tutto questo, prima e dopo Barbiana, prima e dopo La Verna, non è cambiato nulla. È, piuttosto, cresciuta esponenzialmente la consapevolezza di non avere un lavoro, ma una missione, di non avere una persona al mio fianco, ma Mario-netta, di non poter essere una bacchettona, ma continuare a pensare che “il mio lavoro è un gioco, un gioco molto serio” (e questo è Escher).

Al contrario di quello che faccio di solito e che anche qui avevo iniziato a fare, lasciando nell’oblio dell’anonimato le persone che arricchiscono le mie esperienze, questa volta voglio ringraziare in modo del tutto lapalissiano il MIEAC (Movimento Impegno Educativo Azione Cattolica), saltando le specifiche anagrafiche ed i titoli che accompagnano i nomi di chi c’era, perché il MIEAC non è fatto da mere individualità, ma è un gruppo che lavora con il proposito di migliorare la scuola ed il nostro futuro, che non è nostro, ma dei nostri ragazzi: che siano come Pietro, quell’alunno di Barbiana, il quale ha pianto quando ci ha raccontato alcune vicende, ma che ha anche saputo ridere ed essere meravigliosamente diretto e dissacrante, quando ha messo in scena un siparietto, mentre io e Mario-netta andavamo via sole, essendoci intrufolate di nuovo in casa per mettere tutto a posto ed immortalare gli ambienti finalmente deserti.

Stava rientrando con un suo compagno e portavano con fatica un finestrone in legno che stavano sistemando, perché di quel posto ancora si prendono cura, lo hanno a cuore:

“Siete fidanzate?”.

“Mamme, con due figli a carico a testa”.

“Maremma, avessi vent’anni di meno! Ciao ragazze, è stato un piacere”.

Lasciatemelo dire: ci sono avances ed avances. Questa è stata una delle più genuine io abbia mai visto, come quel sorriso: una narrazione vivente, che ci stava prendendo in giro.

Non si finisce mai di imparare: è necessario.

E nulla è più educativo dello stare con le persone, per le persone.

La dimostrazione sta nel fatto che dopo soli tre giorni di convegno che ospita gente di una certa levatura e di ben diverse provenienze geografiche, diventa possibile affacciarsi dalla finestra della propria stanza, quella che mostra il chiostro dell’Oasi S. Francesco, nel più assoluto silenzio notturno dipinto di stelle, sentendo un richiamo da un’altra finestra posta sul lato esattamente opposto:

“Ehi signora, ce l’hai un poco di prezzemolo?”

In 72 ore si può trovare chi non sa cosa farsene del ruolo e ama essere serio solo quando scherza, ché la vita non sta nel conto in banca e nel titolo professionale, nemmeno quando li hai. Una fetta di mondo muore, un’altra non ha modo di imparare, un’altra non ha di che mangiare, un’altra non si può curare. Le cose belle, che non sono cose, non si riducono agli alberghi a cinque stelle, ai viaggi in aereo, alle Società per Azioni che alla fine falliscono, alle public relation ed all’esclusiva cucina gourmet: il mondo non gira intorno a nessuno di noi. Bello è chi ti guarda come tu lo guardi e ti si rivolge, dopo soli tre giorni, giocando, in pigiama, con l’accento della tua terra, come solo una persona con cui hai grande confidenza farebbe.

Dunque la confidenza, l’intimità, quella vera, non ha bisogno di categorie spazio-temporali che rendono schiavi: occorre volersi guardare, sapersi parlare, volersi ascoltare,  sapersi vedere, volersi tenere.

Ci vuole poco, ma denso impegno, molta fortuna (quella con la C), tanto Caso (quello che non esiste), infinito Amore. Sì, quello personificato, lettera maiuscola.

In una frase: su una parete della nostra scuola c’è scritto grande: I CARE. È il motto intraducibile dei giovani americani migliori. “Me ne importa, mi sta a cuore”. È il contrario esatto del motto fascista: “me ne frego” (Don Lorenzo Milani).

Ed allora, passando alla conclusione di una vicenda che potrebbe continuare ad essere descritta ancora per molte pagine ed a cui certamente non ho reso con giustizia quanto merita, cosa ci siamo portate a casa?

Una serenità d’animo che non ci lascia, credo ci sia entrata nelle viscere e resterà con noi molto a lungo; la consapevolezza di aver seminato e la fiducia nella possibilità del raccolto; la certezza che due esseri umani possono passare la notte a ridere dei folletti della Loacker inducendo i vicini di stanza a bussare contro il muro, senza per questo inimicarseli; la bellezza degli eventi; la meraviglia dell’assenza di schemi ed  una nuova, brillante contezza: basta un po’ di prezzemolo, e la pillola va giù.

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FontePhoto credits: Myriam Acca Massarelli
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Sono una frase, un verso, più raramente una cifra, che letta al contrario mantiene inalterato il suo significato. Un palindromo. Un’acca, quella che fondamentalmente è muta, si fa i fatti suoi, ma ha questa strana caratteristica di cambiare il suono alle parole; il fatto che ci sia o meno, a volte fa la differenza e quindi bisogna imparare ad usarla. Mi presento: Myriam Acca Massarelli, laureata in scienze religiose, insegnante di religione cattolica, pugliese trapiantata da pochissimo nel più profondo nord, quello da cui anche Aosta è distante, ma verso sud. In cammino, alla ricerca, non sempre serenamente, più spesso ardentemente. Assetata, ogni tanto in sosta, osservatrice deformata, incapace di dare nulla per scontato, intollerante alle regole, da sempre esausta delle formule. Non possiedo verità, non dico bugie ed ho un’idea di fondo: nonostante tutto, sempre, può valerne la pena. Ed in quel percorso, in cui il viaggio vale un milione di volte più della meta ed in cui il traguardo non è mai un luogo, talvolta, ho imparato, conviene fidarsi ed affidarsi.