«Fatto m’hai lieto, e così mi fa chiaro,
poi che, parlando, a dubitar m’hai mosso
com’esser può, di dolce seme, amaro»
(Paradiso VIII, vv.91-93)
Siamo nel terzo cielo, quello di Venere, dove sono beati gli spiriti amanti. Dante incontra Carlo Martello d’Angiò, che aveva conosciuto personalmente nel 1294 e al quale era legato da sincero affetto.
Un po’ come accaduto con Giustiniano, l’intero canto è dominato dallo sfortunato re morto a soli ventiquattro anni, troppo presto per dimostrare il proprio valore e soprattutto, osserva Dante, per evitare il male che sarebbe seguito alla sua prematura scomparsa.
Carlo riepiloga le vicende autobiografiche, con eloquio forbito presenta le terre di cui era stato signore e si lancia in una severa invettiva contro il fratello Roberto d’Angiò, a suo dire succube d’avarizia e dimentico della liberalità della propria stirpe.
È appunto questa stoccata ad offrire lo spunto per una digressione sull’origine delle diverse inclinazioni dell’uomo.
Carlo Martello, fondendo Aristotele con la dottrina cristiana, argomenta che, in quanto cittadino, ogni uomo può concorrere al bene della comunità svolgendo uffici e compiti diversi, per cui uno nasce legislatore e un altro re, questi sacerdote e quello ingegnere: non tutti possono essere Solone, non tutti Serse, non tutti Melchisedech, non tutti Dedalo.
D’altra parte, l’influsso divino non bada alle casate di appartenenza: perciò non è detto che un figlio segua le orme del padre. Succede piuttosto il contrario: che chi è nato per essere un condottiero sia obbligato a prendere i voti e che venga eletto re chi era vocato ad una vita spirituale. Con tutti gli effetti negativi che ne conseguono.
A fronte di tale ragionamento, Dante ringrazia Carlo Martello con parole che liberamente provo così a tradurre: Tu mi hai reso felice e ora mi si è sciolto il dubbio che mi era sorto ascoltandoti, mi chiedevo infatti come sia possibile che da un seme dolce discenda un frutto amaro.
Come è possibile? Io continuo a chiedermelo.
Mi chiedo perché non sempre seguiamo l’inclinazione al bene. Mi chiedo perché io per primo non sempre faccia quel che dico e quel che credo. Mi chiedo cosa spinga l’umanità a porre in atto processi di devastazione e di morte. Di autodistruzione.
Perché aggrediamo invece che accogliere? Non è meglio un abbraccio che un pugno? Vincere insieme non è meglio che perdere da soli?
Mi chiedo questo e altro ancora e, con tutto il rispetto e l’amore per Dante, non sempre trovo le risposte.
Allora succede che mi affidi.
Perché, malgrado tutto, mio malgrado, continuo a credere che, nel cuore di ogni uomo e di ogni donna, ci sia ancora un seme di bene, che ha sete di luce.
Henrik Ibsen:« Il denaro può comprare la buccia di molte cose, ma non il seme».
Eise Osman: «Il seme è il tempio dove abita Dio».
Proverbio messicano: «Pensavano di averci seppellito. Ma non sapevano che noi eravamo semi».
“Il Signore ha messo un seme nel profondo del mio giardino “… ripeteva una canzone che si cantava un tempo. Cose buone in una terra impastata di dolore e di peccato, cosa ne uscirà? Secondo il nostro pensiero deterministico potrà solo che venir fuori erbaccia, invece che Chi non perde la speranza e aspetta, perché ci aveva in mente da sempre e attende con pazienza che il seme di senape diventi un grande albero.
e preferisce seminare luce invece che urlare al buio…
Grazie, Emanuela!