Luigi, pure lui anziano, era costretto a mettere il suo carro a riposo

Lui sarebbe stato propenso a liberarsene di quel “benedetto” carretto, vecchio, obsoleto e quindi sorpassato, non più idoneo ai servigi che doveva rendere. Quanta strada aveva percorso il carretto, su e giù dal paese al podere, sette giorni la settimana.

Luigi, pure lui anziano, era costretto a mettere il suo carro a riposo, ma non si decideva, e rimandava tutto al giorno dopo.

Si sa che dopo un giorno v’è né subito un altro: questo aspetta solo che passi la notte e si presenta lì, senza manco averlo desiderato. Sì, perché, a differenza della maggior parte dei viventi che in ogni momento della giornata si prodigava affinché il tempo e l’Ente Supremo gli assicurassero la vista del nuovo dì, Luigi, era un’eccezione e desiderava morire, ma non era assecondato. Il vecchio era stanco della vita. Egli rimaneva attaccato a questo mondo di schiavi, come spesso diceva, esclusivamente a causa del suo animale che lui non voleva abbandonare, lasciarlo solo, dopo tanti anni d’intesa. Era un asino rinsecchito dalle fatiche e dalle bastonate prese, ma non perché non era obbediente ai comandi del suo padrone, anzi era talmente docile che pure i bambini del vicinato ci giocavano in modo pesante, senza che lui protestasse, magari scalpitando o ragliando, come di solito usano fare quelli della sua specie. Aveva il padiglione dell’orecchio sinistro che glie ne mancava una metà a causa di un’infezione presa da un nugolo d’insetti. Questi gli avevano aperto una ferita, poi trascurata, e che il veterinario del paese, in modo spicciolo, ordinario, gliel’aveva amputato come si fa con un ramo secco durante la potatura delle piante. Nemmeno in quel frangente l’asino protestò, anzi, nei giorni a seguire, chi dovette soffrire fu proprio Luigi che, dall’alto del carro, abituato com’era alla simmetria di quei due organi uditivi, dovette alterare la sua voce per assicurarsi che l’animale avesse ricezione dei comandi che lui gli impartiva. L’asino poteva essere sordo del tutto che avrebbe eseguito perfettamente le sue funzioni, poiché le praticava da molti anni e, per questo, ci aveva fatto il callo. Si chiamava Felicino. Nome contraddittorio alla vita che menava, ma, in effetti, sembrava un asino, se non proprio felice, almeno un poco, Felicino appunto. Le bastonate che lui incassava, erano conseguenza del difficile rapporto esistente tra il suo padrone Luigi, e la moglie…

Una donna mastodontica questa: autoritaria, capricciosa e, talmente antipatica, che pure l’asino, a modo suo, aveva imparato a detestarla, sferrandole, in varie occasioni, dei calci senza mai coglierla. Le beghe tra Luigi e quel soldato di sua moglie spesso scaturivano da un nonnulla: come l’essere rientrato in anticipo dal podere, l’aver portato un tipo di verdura piuttosto che un altro, una camicia lacerata da uno strappo di sarmento, che lei poi, gli doveva rammendare, e così via elencando. L’uomo non perdeva mai le staffe, ma si limitava a fare cenni col capo, emettendo qualche mugugno intanto che accudiva Felicino. Lo faceva dopo aver parcheggiato il carretto sulla strada. Questo veniva subito invaso da una frotta di vocianti monelli per giocarci sopra e non solo: gli facevano pure dispetti. Spesso Luigi, e sempre di mattino presto, si accorgeva di qualche bravata perpetrata dai ragazzi della sera prima. Il vecchio, ogni mattino, faceva indietreggiare fra le stanghe del carretto, l’asino, dopo averlo bardato con i suoi finimenti oleati con lardo rancido, di cui lui stesso non avvertiva l’acre odore. Di solito, trovava spesso qualche sorpresa, lasciata da quei discoli di ragazzi. Lui era preparato a questo e si limitava a porre rimedio. Lo faceva innanzi la partenza per la campagna.

Generalmente Luigi rientrava a tarda sera dal suo podere, stanco e svogliato, e mal si preparava per ascoltare le insolenze di Mafalda, sua moglie.  Lui già da qualche tempo aveva imparato a chiudersi le orecchie non appena lei dava inizio ai suoi diafani concerti: altresì il suo Felicino, pure lui aveva fatto l’abitudine. Ma l’impresa avveniva sistematicamente, tanto che a Luigi gli procurava “ernie” al cuore. In un modo o nell’altro, doveva curarsi: lo faceva il mattino dopo, scaricando la sua rabbia, attraverso le bastonate, sulla groppa di Felicino. Questo capiva e trotterellava contento, trainando il carretto verso il fondo, poco distante dal paese. Contrariamente a quanto si è sempre affermato sui somari, quello di Luigi era comprensivo e tollerante: si sa poi che la tolleranza, specialmente quando si adopra nei casi estremi, non è altro che un “prodotto” dell’intelligenza. Per essere obiettivo, un asino di tal maniera, studi a parte e oltre all’intelligenza, lui si era formato da solo: autodidatta, insomma. La vita di Luigi, non si può affermare sia stata una vera battaglia se non fosse stato per la sequenza di scontri quotidiani che l’avevano reso inattaccabile dal punto di vista fisico, mentre da quello dignitoso era stata una plateale sconfitta. È come quando uno incomincia a bere un bicchiere di vino ogni giorno e si assuefà, ma che dopo un po’ di tempo non basta più un bicchiere ed è costretto a berne due e così via, fino ad ammalarsi di fegato. Il fegato di Luigi era ormai a pezzi, nemmeno a darlo in pasto ai gatti sarebbe servito poiché, pieno di bile com’era, sarà stato pure amaro, e i gatti sono animali schizzinosi, con gusti difficili e olfatti ricercati…

Il carro che lui aveva non era più al passo con i tempi, ma era legato al fatto che pure Felicino era sorpassato. Nel caso Luigi si fosse liberato del carro, cosa ne avrebbe fatto poi dell’asino? Non l’avrebbe certo tenuto nella stalla per amicizia o per una ragione affettiva. Un asino, finché lavora resta utile, non si può trasformarlo in una dama di compagnia. Era questo il dilemma, perciò non aveva preso ancora decisione e rimandava tutto al giorno dopo: non poteva liberarsi dell’unico amico che aveva, dell’asino. Qualche cattivo spettegolava in giro che Luigi non avrebbe mai ceduto il suo Felicino poiché non avrebbe più avuto il capro espiatorio per purificarsi dalle arrabbiature causategli da Mafalda. Come pure l’asino se l’avrebbe preso male, abituato com’era: non sentirsi più quelle bastonate sulla schiena, per lui sarebbe stato come perdere la mangiatoia o, peggio ancora, l’amante… Erano tanti i fattori che concorrevano insieme a non far chiudere il cerchio dentro il quale Luigi voleva porre fine ai suoi problemi. Nella vita uno impara, non a regolarsi prendendo spunto dal passato, bensì prospettandosi un futuro fantasioso, adeguando il comportamento giornaliero in previsione di ciò che potrebbe accadere, o che si vorrebbe, tralasciando, ignorando persino la realtà del masso pendente che gli sta rovinando addosso. Una mattina d’estate, com’era solito fare, Luigi si levò alle quattro. Aveva messo due bicchieri d’acqua nel catino e si era bagnato la faccia; era entrato nella stalla e aveva tirato fuori il suo Felicino al quale aveva poi attaccato il carro ed era pronto per partire. Prese gli ultimi attrezzi che gli servivano per svolgere il lavoro nel fondo, montò sul carro e diede un: -Oh! -, all’animale il quale non si fece ripetere il comando e partì. Il fattaccio accadde prima ancora che percorressero duecento metri poiché dal carro si sfilò una ruota e si capovolse investendo in un groviglio d’assi e attrezzi da lavoro, sia Luigi e sia l’asino in un apparente abbraccio amoroso ma tragico. A quell’ora del mattino molti contadini erano per strada e alcuni soccorsero tempestivamente Luigi, estraendolo di sotto le masserizie e l’animale che gli era caduto addosso. L’animale si ritrovò in piedi ed emise un persistente, lungo, sonoro raglio che si udì fino nell’ultima contrada del paese. Luigi lamentava di una gamba, la destra, che non poteva più muoverla, si accertò poi che si era fratturata in più parti. La causa dell’incidente proveniva da quei ragazzacci che si riunivano a giocare sul carro ogni sera. Quelli, per fare uno scherzo al contadino, gli avevano levato il cuneo di ferro che tratteneva la ruota ferma sull’asse.

Fortuna volle che non succedesse nulla di grave al suo Felicino: se la cavò con un grande spavento e qualche escoriazione sul corpo, altrimenti Luigi non l’avrebbe superata dal dispiacere. Dopo due mesi a Luigi gli amputarono la gamba che gli si era incancrenita. L’asino era rimasto tutto quel tempo nella stalla oziando tristemente nell’attesa di un’improvvisa apparizione del suo padrone che gli avrebbe portato ancora a respirare l’aria di campagna. Mafalda ora aveva tutta la giornata a disposizione per martoriare il povero Luigi e questi non aveva più modo di scaricarsi, bastonando Felicino il quale ne avvertiva la mancanza di quelle busse e ne soffriva tanto. Si era venuta a creare una situazione insopportabile, almeno per il contadino e il suo animale, non certo per la soldata: lei in quella situazione ci sguazzava dentro quasi sadicamente, inveendo contro questo e contro quello, a dritta e manca, sopra e sotto, di giorno e di notte. Per chi le stava vicino, era come aver contratto, in una sola infezione: vaiolo, peste bubbonica, colera e cimurro. L’asino aveva inteso la situazione e si era caricato anche lui d’astio nei confronti della sua padrona: si dovette scaricare un giorno di domenica, quando quel soldato entrò nella stalla per governarlo. Non appena lei gli passò di dietro, lui le sferrò un calcio colpendole nel petto. Lei cadde e non si rialzò mai più: restò secca sul colpo, mentre l’asino incominciò a ragliare come non l’aveva mai fatto, e continuò per qualche settimana, fino a quando decisero di mandarlo a macello. Luigi, dopo il funerale della moglie, persa ogni cognizione, incominciò a delirare facendo la pantomima al suo Felicino: -Ih, oh! Ih, oh! -, ma poi finì in un ospizio per dementi e lì ci rimase fino alla fine. Il carro, quel “maledetto” carretto, se lo prese un mastro d’ascia che lo rimise a nuovo. Oggi lo possiede un ristoratore che l’ha messo in bella vista fuori del suo ristorante al quale gli ha imposto nome: “Il Carro”.

I monelli non ci giocano più intorno, ma anche se lo facessero, il carro è lì fermo con le ruote bloccate, anche perché non c’è nemmeno più Felicino disposto a trainarlo senza il suo padrone. Solo così si poté chiudere il cerchio, ma non si sa ancora se sia stata la mano di quei monelli oppure del fato a deciderlo, sta di fatto che, ogni qualvolta s’invoca il diavolo bisogna accettarlo nelle sue vesti… Quando lui arriva con i suoi “arnesi”: è assai peggio degli artigiani che si trovano insieme in un cantiere di lavoro.

Novella tratta dal libro mai pubblicato, “Novelle paesane” di: Salvatore Memeo


FonteIn copertina, il disegno del Carro è opera di Giuseppe Forina
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Salvatore Memeo è nato a San Ferdinando di Puglia nel 1938. Si è diplomato in ragioneria, ma non ha mai praticato la professione. Ha scritto articoli di attualità su diversi giornali, sia in Italia che in Germania. Come poeta ha scritto e pubblicato tre libri con Levante Editori: La Bolgia, Il vento e la spiga, L’epilogo. A due mani, con un sacerdote di Bisceglie, don Francesco Dell’Orco, ha scritto due volumi: 366 Giorni con il Venerabile don Pasquale Uva (ed. Rotas) e Per conoscere Gesù e crescere nel discepolato (ed. La Nuova Mezzina). Su questi due ultimi libri ha curato solo la parte della poesia. Come scrittore ha pronto per la stampa diversi scritti tra i quali, due libri di novelle: Con gli occhi del senno e Non sperando il meglio… È stato Chef e Ristoratore in diversi Stati europei. Attualmente è in pensione e vive a San Ferdinando di Puglia.

1 COMMENTO

  1. Se le novelle sono tutte cosi’ gustose, pubblichi pure il suo libro!
    Complimenti!
    Franco di Chio

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