«Or convien che Elicona per me versi, 
e Uranìe m’aiuti col suo coro 
forti cose a pensar mettere in versi»

(Purgatorio XXIX, 40-42)

Il canto ventinovesimo del Purgatorio è quasi integralmente occupato dalla descrizione di una processione liturgica ordita su una ricca trama di allegorie ed è probabilmente uno dei più ostici per la nostra lettura.

Mentre infatti Dante, ricalcando i passi di Matilde, risale il corso del fiume Lete è raggiunto da un intenso fulgore e accoglie l’invito della fanciulla ad osservare con attenzione ciò che sta per accadere.

Rinuncio a priori ad una descrizione analitica di quanto narrato, limitandomi a pochi cenni.

Si tratta di una paradigmatica rievocazione della storia della Chiesa, ricca di riferimenti biblici, tipici del genere apocalittico. È perciò ben comprensibile che Dante si appelli alle Muse – e di qui in avanti tali invocazioni saranno sempre più frequenti – perché lo aiutino a descrivere l’indescrivibile ovvero «a forti cose a pensar mettere in versi» (v.42).

Non ci sorprende che Virgilio, pur interpellato dal devoto discepolo, si riveli non meno sbigottito di lui: ormai sono tre canti che l’autore dell’Eneide non proferisce parola e, più che simbolo della ragione filosofica, sembra qui incarnazione dell’umana impossibilità a spiegare l’inspiegabile: come a dire che, davanti al Mistero siamo tutti in-fanti, letteralmente, incapaci di parlare, senza parole.

Nondimeno, il grifone che tira il carro è sicuramente allegoria del Cristo che guida il cammino della Chiesa nel mondo. Tutte le altre figure che lo precedono e lo seguono hanno avuto molteplici interpretazioni, a cominciare dai sette candelabri via via riferiti ai sette doni dello Spirito Santo, ai sette sacramenti, alle sette Chiese d’Asia, ai sette ordini del chiericato… Più facile la spiegazione dei ventiquattro vegliardi riconducibile ai ventiquattro libri del Nuovo Testamento, mentre indiscutibili e ben noti sono i simboli dei quattro evangelisti: l’angelo per Matteo, il leone per Marco, il toro per Luca, l’aquila per Giovanni. Quanto alle tre figure femminili, rispettivamente vestite di rosso, verde e bianco, sono chiaro simbolo delle tre virtù teologali – carità, speranza e fede – mentre la danza di altre quattro donne – le virtù cardinali – è guidata dalla prudenza, dotata di tre occhi per non perdere mai di vista gli eventi del passato, del presente e del futuro.

E qui mi fermo per lasciare lo spazio alla nostra consueta, breve considerazione.

Titanica impresa, quella di Dante, che mi appare esemplificativa del ben più smisurato sforzo che mille religioni e mille filosofie dai tempi della preistoria ad oggi conducono: dare forma a ciò che non abbiamo visto, squarciare il velo di Maya, attingere l’inattingibile.

Direi che è l’impresa, confessata o sottaciuta, persino rimossa, che ogni uomo e ogni donna prima o poi intraprendono. Per quanto ci diciamo incapaci di infinito, confinati nel nostro angusto spazio-tempo, costretti da ciò che ci limita, sembra proprio che non siamo in grado di rinunciare alla recherche, che si tratti del Santo Graal, di qualche altra sua forma di manifestazione o persino di un suo surrogato. Pur quando, per dirla con Montale, continuiamo a «seguitare una muraglia che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia».

Forse – e scrivo forse – tutto questo avviene perché, il giorno in cui smettessimo di cercare, prima ancora che la morte di Dio, avremmo decretato la fine dell’umano.

La parola finale a Giorgio Caproni:

Prego non so ben dire

chi e per che cosa; ma prego:

prego (e in ciò consiste

– unica – la mia conquista)

non, come accomoda dire

al mondo, perché Dio esiste:

ma, come uso soffrire

io, perché Dio esista.

E ancora:

Dio di volontà

Dio onnipotente, cerca

(sforzati!), a furia d’insistere

– almeno – d’esistere.

Sublime:

«Piaccia o non piaccia!»

disse. «Ma se Dio fa tanto,»

disse, «di non esistere, io,

quant’è vero Iddio, a Dio

io Gli spacco la Faccia».


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La mia fortuna? Il dono di tanto amore che, senza meriti, ricevo e, in minima parte, provo a restituire. Conscio del limite, certo della mia ignoranza, non sono mai in pace. Vivo tormentato da desideri, sempre e comunque: di imparare, di vedere, di sentire; di viaggiare, di leggere, di esperire. Di gustare. Di stringere. Di abbracciare. Un po’ come Odysseo, più invecchio e più ho sete e fame insaziabili, che mi spingono a correre, consapevole che c’è troppo da scoprire e troppo poco tempo per farlo. Il Tutto mi asseta. Amo la terra di Nessuno: quella che pochi frequentano, quella esplorata dall’eroe di Omero, ma anche di Dante e di Saba. Essere il Direttore di "Odysseo"? Un onore che nemmeno in sogno avrei osato immaginare...

2 COMMENTI

  1. La ricerca di Dio credo sia in fondo la ricerca del sublime in noi stessi (D’IO). Rispecchiarsi nel fondo dorato e più nascosto di noi per trovare tutte le virtù e quell’umanità che ci avvicina all’amore puro.

    • Di certo, mi pare di poter dire, ognuno di noi ha sete: di cosa, è da vedere, così come sarebbe da vedere – sempre a parer mio – cosa davvero lo disseti…

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