«Li ho visti, li ho visti in folla (...) Erano limmagine della frenesia più insolente. Ponevano un tale impegno nel divertirsi a tutti i costi, che parevano in uno stato di “raptus”: era difficile non considerarli spregevoli o comunque colpevolmente incoscienti». 

(Pier Paolo Pasolini, 1975)

 Sembravano tutti diversamente ammassati negli stessi luoghi e dovevano essere troppi, perché la sensazione era la stessa da qualsiasi posto la si guardasse: troppo mondo. Troppo. Soverchio.

Il caldo era torrido, trentasei gradi centigradi effettivi, percepiti quarantuno, la gente occupava anche il posto che di diritto spetta all’aria, non c’era pace.

In pineta jogging, in spiaggia file per accaparrarsi ombrelloni e lettini a modiche cifre quali cinquanta euro al giorno, qualcuno parlava a voce alta, qualcun altro rideva, c’era chi sorseggiava Mojito e chi caffè con il latte di mandorla.

Pensava che, nonostante tutto, la scenografia aveva qualcosa di salvabile, poiché in fin dei conti la gente stava vivendo, sebbene non ci fosse proprio nulla da vivere: mai momento fu più incerto, nessuno poteva sapere se avrebbero avuto un futuro, quale e come sarebbe stato. Eppure quasi tutti se ne infischiavano e riempivano di vita ciò che di vita pareva restare.

Quel giorno nessuno aveva fretta ed era forse per questo che si potevano scorgere tante più cose del solito, nonostante quel caos dissoluto e stucchevolmente eccessivo.

È che si vedeva oltre il cincischiato: molte di quelle donne probabilmente sognavano solo di poter scoppiare in un pianto liberatorio che confondesse le lacrime con l’acqua salmastra, senza doverlo nascondere e senza dover dare spiegazioni; molti di quegli uomini avrebbero voluto ammettere di essere solo ed incolpevolmente fragili, poter mollare un attimo la presa e chiedere conto di quella delicatezza che, poiché nascosta, creava cumuli e cumuli di sciupio.

Si sentiva l’eco dei rimproveri che ognuno di loro aveva evitato a sé stesso e rigirato, forse sovente, forse molto di rado, su ciascuno degli altri; ed intanto si tesseva la perfetta mappa di tanti cammini diversi che avevano fatto la storia di ciascuno. Sì trattava di carte geografiche disseminate di sentieri non scorti, saltati e sprecati dove loro stessi non avrebbero mai più potuto fare ritorno.

Chissà cosa sarebbe stato di ciascuna delle persone che componevano quell’apparente massa informe e colorata, chissà se avrebbero trovato un modo per trasformarsi in una tela di Picasso; magari sarebbero invece diventati quadri di Paul Klee, con i pezzi del corpo sparsi qua e là, non per questo mancanti però.

Nulla, nulla era dato sapere se non che il punto di vista di quell’osservatore era lo stesso di chi aveva avuto il regalo di amare la possibilità di stare fermo a guardare, di concentrarsi a sentire, di non muoversi per farsi nutrire, insieme ai momenti necessari per incassare.

Alla fine era tutto come un dipinto con la sua esclusiva base musicale in cui era del tutto inutile rincorrere il giorno per far arrivare la notte, sfuggire al buio per aspettare il sole, bypassare l’inverno per mettere fretta all’estate.

L’esistenza seguiva sempre ed ineludibilmente il suo corso e la volontà di chi decideva per tutti, in una cornice dal sapore inarrivabile: un dipinto dallo sfondo bianco con un cuore disegnato nelle sue perfette e rossissime forme anatomiche, compreso di fratture e derivazioni: poca acqua per tanta sete, tanta vita per poco e niente, sarebbe stata una buona didascalia, sebbene qualcuno l’avesse già scritta.

Come se quelle fossero state davvero le scene di un social a cui passare ossigeno con l’unico e solo movimento possibile dalla notte dei tempi: un like muto ad interrompere l’assente soluzione di continuità del tempo. Ben poca cosa, seppur tanta roba.

Intanto l’osservatore insisteva, stava ancora lì, consapevole che lAmore – l’unico vero Dio – avrebbe riempito i cuori e le attese e che più la pozzanghera era profonda, più acqua avrebbe potuto contenere (Paolo Scquizzato).

«Lattesa trasforma il tempo in eternità» (Simone Weil).


FontePhotocredits: Ermanno Carlà - Estratto foto copertina album Casa 69, Negramaro.
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Sono una frase, un verso, più raramente una cifra, che letta al contrario mantiene inalterato il suo significato. Un palindromo. Un’acca, quella che fondamentalmente è muta, si fa i fatti suoi, ma ha questa strana caratteristica di cambiare il suono alle parole; il fatto che ci sia o meno, a volte fa la differenza e quindi bisogna imparare ad usarla. Mi presento: Myriam Acca Massarelli, laureata in scienze religiose, insegnante di religione cattolica, pugliese trapiantata da pochissimo nel più profondo nord, quello da cui anche Aosta è distante, ma verso sud. In cammino, alla ricerca, non sempre serenamente, più spesso ardentemente. Assetata, ogni tanto in sosta, osservatrice deformata, incapace di dare nulla per scontato, intollerante alle regole, da sempre esausta delle formule. Non possiedo verità, non dico bugie ed ho un’idea di fondo: nonostante tutto, sempre, può valerne la pena. Ed in quel percorso, in cui il viaggio vale un milione di volte più della meta ed in cui il traguardo non è mai un luogo, talvolta, ho imparato, conviene fidarsi ed affidarsi.