«Tempo e costi hanno un rapporto inversamente proporzionale: per più tempo la merce è data per scontata, più alto è il prezzo finale»
Mi chiamo Acitetap Alos; sì, certo, sono straniero, a modo mio.
Straniero e in ufficio.
Alle 15:30 ed in una frazione sperduta di quest’isola dimenticata da Dio e dal mondo, sono stanco.
Ho preso servizio alle 08:15, in una sede diversa da quella in cui mi trovo; ho anche guidato, non poco e su strade decisamente impervie. In compenso ho finito, è sicuro, ho sentito aprirsi la porta, è arrivato il cambio.
Mi giro e guardo il mio nuovo (indicativamente nuovo) collega: giubbotto ben chiuso, capelli legati, sciarpa e bardatura anti Covid: tutto normale. Mi ricordo che voglio dirgli una cosa, lo faccio.
Gli chiedo se era davvero lui, ieri, in una riunione in remoto: con tutti quei lunghi capelli sciolti e gli occhiali, avevo davvero faticato a convincermi non fosse un estraneo.
Ridiamo, ovviamente era lui, ma io non smetto di esprimere il mio stupore. Frattanto mi volto per recuperare lo zaino, le cianfrusaglie, me. Lui è alle mie spalle, sento odore di caffè, mi aspetto ne stia bevendo una tazzina, ma non me rendo effettivamente conto. Sono quelle cose che so per via degli odori e che non ho bisogno di focalizzare.
Devo salutarlo, dunque, quattro stracci della pezza che sono li ho ricuciti, posso andare: mi volto, benedetto Dio, di nuovo una persona diversa.
Resto fermo la frazione di un istante e indietreggio un momento, lui alza gli occhi da dietro alla tazzina e non capisce, ma avverte la mia ritrosia improvvisa.
– Fede, di nuovo. Non sei tu. Ma che è?
Un secondo, un secondo netto, ho capito.
– Fede! Hai giù la mascherina! Stai bevendo il caffè!!! Capisci che cosa grave sta accadendo?? Non erano i capelli ieri, in remoto.
E Fede sì, annuisce, abbassa la tazzina, mi sorride, alza la mascherina e da lì dietro prende a parlare:
– Hai ragione, ca…! Noi non conosciamo la metà dei nostri volti, sono sempre coperti.
Io non l’ho riconosciuto perché non ne avevo mai visto le labbra, le distorsioni della bocca, la forma del sorriso, i denti, il naso, il mento. Mai visti. E credetemi, lì dietro c’è un altro Federico. Anche il senso dei suoi occhi cambia. Mi ha sorriso, lui del resto ride molto spesso, ma non è il lui che io intendo, se non porta la mascherina.
Non è peggio, non è meglio, ma non è Federico che mi viene in mente se lo nomino ed evidentemente quello che io nomino e mi figuro, senza saperlo, è un Federico che non esiste davvero, perlomeno un Federico del tutto incompleto, rispetto alla realtà.
Dunque una realtà agghiacciante, fatta come la caverna di Platone: immagini, ben oltre Fede, innocente ed inconsapevole metafora, che scambio per vere e vere non sono.
Credo di aver capito finalmente cosa intendesse Sigismondo con la storia della fluidità e della non concretezza: è tutto liquido qui intorno e prende la forma del contenitore in cui qualcuno lo versa. A piacimento. Oggi sferico, domani cubico, senza ancoraggi. Pellicole.
Ecco perché, dunque, è tutto perfettamente in regola, funziona, procede ed è in buona salute, salvo per quel che finge di riguardarmi. Ecco perché sono giorni e giorni che le parole non tornano, i suoni non vibrano, i cibi non saziano, le coperte non bastano e la caffettiera fa troppo rumore.