
Per quale motivo allora chi “si affida” avrebbe un posto speciale nel cuore del Signore?
Il termine “religione” deriva da religere, ovvero legare, mettere insieme.
Se l’obiettivo è unire, perché Dio dovrebbe fare differenze fra praticanti e non?
Secondo questa teoria, chi frequenta ambienti ecclesiastici e partecipa a messe avrebbe una corsia preferenziale nell’avvicinamento a Dio. Si svilupperebbe, così, una sorta di patente a punti nella quale è avvantaggiato chi timbra quotidianamente il cartellino, al secondo posto ci sarebbero quelli che guardano la funzione in TV (visto che, come nella Dad, la presenza è un’altra cosa), in fondo alla classifica, gli atei, gli agnostici o coloro i quali pregano nell’intimità della loro stanza, gli allettati o chi vive perseguendo comunque valori probi e sani pur non avendo Fede.
Poi ci sono i prelati che non ammettono distinzione fra credere e praticare, come se il “credente non praticante” volesse dire non schierarsi, poltrire nell’ignavia.
Personalmente non so a quale categoria io appartenga e, premettendo che essere in comunione con Cristo è quanto di più nobile possa esistere, mi chiedo: per quale motivo allora chi “si affida” avrebbe un posto speciale nel cuore del Signore?
Perché chi “s’affida” pratica e chi pratica concretizza la comunione col Signore.
Ecco perché i prelati hanno ragione.