«Non da qualunque legno si può levare un Mercurio»

(Pitagora)

Era un flusso di moto immobile: un frullatore acceso con le lame tenute ferme da una forza oscura e superiore, invincibile. Il moto dell’accettazione e del silenzio: andava sempre tutto bene, a prescindere da come andasse. Un cancro, la fissità, la calma, l’osservazione, la stasi.

Si cercava di reggere il degrado e si provava a resistere alla tentazione di lasciarsi andare a quel senso di distacco, percorrendo con attenzione i confini del buco nero dell’indifferenza, cercando come i rabdomanti il rivolo di acqua che un tempo aveva condotto negli orti della vita, colmi di siepi in cui si alimentavano carità ed affetto.

Adesso, però, aveva preso vita la vecchia parodia dell’esistenza: così come non era mai stato possibile coltivare una pianta di basilico al punto da impedirsi anche solo di guardarla, per timore perisse, così ora, ovunque si rivolgesse lo sguardo, c’era vegetazione che appassiva.

Pochi giorni e i fiori smettevano di essere, così faceva capolino la seduzione del distacco che ipnotizza i demotivati e disincanta ogni arbusto.

Dunque, nel regno senza forma dell’incontrollata assenza di mordente, davanti a banalissimi caffè zuccherati, riaffioravano le intimità che pure erano state conosciute e fu stilata una lista degli attimi intensi, dei tocchi e delle cure. Sì provò in ogni modo a tenersi distanti dagli abissi e, quando fu perso ogni potere, ecco arrivare la caduta e, nella potenza della discesa attirata dalla forza di gravità, come davanti a una calamita, la dipartita di tanti, resistenti e indistruttibili pezzi di ferro.

Semplicemente la perdita: dal volto caddero imbarazzi, sguardi, odori, strette e tocchi. In verità, in verità vi dico, si perse anche il conto.

Del resto, alla fine e sempre ciò che conta è proprio contare: quel che si fa conta, quel che non si fa conta e molto spesso la sezione aurea non basta, anche se si invita a cena Pitagora, dopo aver girato con l’anima sciatta e mal vestita, cercato la felicità conosciuta per guardarla e non trovare solo rimpianti, ma vedere quanta strada si è percorsa, per poter ricominciare.

Ma ricominciare da cosa, di preciso? Certi uomini hanno sé stessi, altri no: sono satelliti di altre anime, devono occuparsene e non possono permettersi di inserire in quei conti indispensabili, il loro peso specifico ed i loro bisogni.

Un po’ come la luna: è bellissima, misteriosa, lontana. Il satellite della ben più grande e indispensabile terra e non brilla neppure di luce propria. Eppure non si potrebbe farne a meno.

La sua utilità è per tutti, condiziona la vita sulla terra, agisce sulle maree e sulla stabilità dell’asse di rotazione terrestre, regola i cicli riproduttivi, ma lei? Lei è destinata ad avere un’atmosfera senza ossigeno. Chissà quanto deve sentirsi sola.


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Sono una frase, un verso, più raramente una cifra, che letta al contrario mantiene inalterato il suo significato. Un palindromo. Un’acca, quella che fondamentalmente è muta, si fa i fatti suoi, ma ha questa strana caratteristica di cambiare il suono alle parole; il fatto che ci sia o meno, a volte fa la differenza e quindi bisogna imparare ad usarla. Mi presento: Myriam Acca Massarelli, laureata in scienze religiose, insegnante di religione cattolica, pugliese trapiantata da pochissimo nel più profondo nord, quello da cui anche Aosta è distante, ma verso sud. In cammino, alla ricerca, non sempre serenamente, più spesso ardentemente. Assetata, ogni tanto in sosta, osservatrice deformata, incapace di dare nulla per scontato, intollerante alle regole, da sempre esausta delle formule. Non possiedo verità, non dico bugie ed ho un’idea di fondo: nonostante tutto, sempre, può valerne la pena. Ed in quel percorso, in cui il viaggio vale un milione di volte più della meta ed in cui il traguardo non è mai un luogo, talvolta, ho imparato, conviene fidarsi ed affidarsi.