Per splendere e brillare

Si dice che le migliori o le peggiori rivelazioni coincidano con le occasioni più importanti della vita. Detto in altre parole, conosciamo veramente chi ci circonda in momenti cruciali, magari di profondissima gioia.

Accade, semplicemente, che persone inaspettate si rivelino affidabili molto più di altre. E per affidabilità non intendo una particolare prova di fiducia, né soprattutto di eloquenza. Parlo di una straordinaria capacità empatica, che permette di allinearsi con i sentimenti e le emozioni di chi si appresta a vivere qualcosa di importante. Parte tutto da lì: la compassione, la vicinanza, la solidarietà, insomma l’amore…non è questione di volontarismo. Si tratta di sentire fin dentro la carne ciò che l’altro sente. Si tratta di immedesimarsi. Per poi agire. E questo vale per l’ordinario quanto per lo straordinario, per i giorni feriali e per i giorni festivi.

È curioso, a tal proposito, che la parola festa e la parola ferie condividano l’etimologia, considerando che la seconda non si riferisce soltanto ad un tempo di vacanza, giacché feriale è sinonimo di ordinario, quotidiano. Ciò significa che la condivisione dei momenti di festa e la condivisione della quotidianità sono intimamente legate. Tutto ciò di cui abbiamo bisogno per festeggiare è la vicinanza di chi c’è sempre, di chi ci sostiene in tutti gli altri giorni. D’altra parte, la condivisione della festa rinsalda la vita ordinaria, al punto che certe presenze fortificano i legami di sempre e certe assenze (incluse certe modalità di comunicare l’assenza stessa) instillano cocenti dubbi.

“Ricordati di santificare le feste”: mi piace pensare che la misura di questo comandamento (come di tutti gli altri del resto) sia una profonda fioritura umana. E mi piace pensare che fiorire come persone significa anche imparare l’arte della gioia, sacrificandosi per essa come ci si sacrifica per le cose austere e severe. Il dolorismo e il pietismo di cui siamo impastati non aiutano, al punto che la condivisione della sofferenza risulta sempre più facile. Far festa con qualcuno, invece, è veramente difficile e richiede una dose di maturità non indifferente: si tratta di tacere, di pensare molto, molto bene le parole, di sorridere, di scavare nelle proprie insoddisfazioni e nei propri leciti, rispettabili problemi e impegni uno spazio per contenere la gioia altrui. Gratuità di un certo livello, figlia della pacificazione con il proprio sé.

Ma soprattutto questione di luce, perché festa deriva dal greco phas, connesso alla radice sanscrita bhas-, con l’idea di splendere e brillare. E bisogna avere una buona dose di luce per lasciar brillare gli altri, per aiutarli a splendere, per contribuire alla loro festa. Mi verrebbe da dire: “dimmi se e come partecipi a una festa e ti dirò chi sei”. E poi mi viene in mente quella strana parabola del Vangelo di Matteo, in cui la mancata o la sciatta partecipazione a una festa di nozze sono trattate da peccato di non poco conto. Non mi stupisco, data la familiarità del Vangelo con le gioie delle persone, data l’abitudine di Gesù, il Figlio di Dio, a partecipare a banchetti e matrimoni (abitudine che gli costò l’appellativo di mangione e beone!). Eppure, a lasciarmi sempre interdetta è quella conclusione sui molti invitati e sui pochi eletti perché, oltre a denunciare le falle di un certo attivismo apostolico, conferma il potere di una festa di svelare coloro che realmente contano.


FontePhoto by Thomas Kinto on Unsplash
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Sono un'insegnante, anche se il più delle volte sono io quella in-segnata dai miei studenti. Sono una ricercatrice, perché cerco piste di rilevanza pubblica per una materia troppo fraintesa e troppo di nicchia: la teologia. Sono una giornalista e faccio cose con le parole. "Quello che non ho è quel che non mi manca" (F. De André) e sono immensamente grata alla vita perché, non senza impegno e sacrificio, "ho trovato amore nel mezzo de la via, in abito legger di peregrino" (Dante Alighieri, Vita nova)