Confessioni fuori traccia di un anarchico che ha paura di perdere l’aereo…

Domenica, 6 maggio, ore 16.30: un orario da disperati, se si tiene conto delle abitudini culinarie del Sud. Il pranzo della domenica è sacro, la città è un deserto, per la prima volta non devo faticare a trovare parcheggio in pieno centro, sotto il Municipio. Eppure, a sentire Erri De Luca accorrono tutti: sold out e anche di più, un sacco di gente entra comunque, anche se non ci sono più posti e deve restare un’ora in piedi, ammaliata dalle note capacità affabulatorie dello scrittore muratore operaio anarchico napoletano.

Lui è più puntuale di tutti. Si fa trovare sotto il palco, ad aspettare i convenuti. Si fa portare una birra, rigorosamente quella del Festival, nomen omen, si chiama “Disperatissima”. La sorseggerà a metà racconto: “Perché la fanno qui. Ed è buona” – dichiara davanti al pubblico che sorride e apprezza.

Il racconto, appunto. Non scopriamo certo oggi chi sia Erri de Luca. E non ha bisogno di presentazioni. Ma stranamente sembra in vena di confidenze e parla a braccio, per 57 minuti, seduto ai bordi del palco, a due passi dalla prima fila, come si fa con amici: raccontandosi.

Il suo tema sarebbe Speranza vs Disperazione, ma mette subito in chiaro le cose: “A scuola andavo malissimo, particolarmente in italiano. Ai compiti di italiano prendevo voti bassissimi, perché andavo sempre fuori traccia. Una volta sola c’era un tema libero, su Fedro, riuscii a scrivere ben 20 righe, ero davvero soddisfatto, ma presi ugualmente un voto basso, perché la maestra pensò che avessi copiato”.

Tuttavia il tema Erri lo enuclea bene, altroché, solo che forse lo declina in chiave un po’ troppo autobiografica e, peraltro, al minuto 57, si ricorda per la prima volta di guardare l’orologio: ha un sobbalzo, si rende conto che rischia seriamente di perdere l’aereo e così, ex abrupto, saluta il pubblico e se ne va: “L’ospite si deve ritirare finché è ancora desiderato” – conclude, lasciando tutti a bocca aperta.

Ed in mezzo a questo esordio e a questa repentina chiusura?

Una riflessione davvero accattivante su quello che è stato il Novecento. Un secolo di disperazione e ispirazione, e De Luca spiega: “Per me la disperazione è fonte di ispirazione”. E dunque racconta di come lui, nato a metà del secolo scorso, abbia potuto recuperare la prima metà del Novecento, quella che non ha vissuto, attraverso il racconto delle donne e attraverso i libri del padre.

“Le donne mandavano i marmocchi nell’altra stanza quando dovevano parlare della guerra, ma il tufo non è fatto per isolare, è effusione generosa del vulcano e fa sì che le parole lo attraversino: ecco perché a Napoli sapevamo tutto di tutti, senza bisogno di origliare”.

Muri fatti per non dividere, come il Mediterraneo che, ricorda ancora De Luca, citando Omero: “È una via acquatica”. Una via di comunicazione, precisamente, non un muro di separazione, come quello che De Luca non cita, nonostante da anni siano in tanti a chiedergli una parola di verità (ma per questo si rimanda il lettore interessato al post scriptum che segue quest’articolo, ndr).

È attraverso il Mediterraneo, spiega ancora De Luca, che ci è arrivato tutto: la cultura di cui ci vantiamo, e di cui non siamo creatori, ma solo elaboratori a mo’ di bravissimi artigiani qual siamo; e poi, l’astronomia, l’arte, le filosofie, i numeri, persino il monoteismo, impiantato proprio a Roma, la città di tutti gli dei!

Può davvero sembrare che vada fuori traccia Erri col suo racconto, ma la trama è chiara: dalla disperazione del secolo che ha inventato le guerre in cui muoiono i civili, invece che i soldati, alla ispirazione trovata attraverso il senso di appartenenza di una intera generazione, quella che ha fatto il ‘68.

E qui la vena autobiografica si fa più scoperta: e De Luca ci narra di quando, ancora bambino, leggendo i libri del suo papà, si scopre anarchico, una persona che sta dalla parte di “ciò che è indispensabile”, non di ciò che è vincente: siano essi gli anarchici catalani, gli ebrei in rivolta nel ghetto di Varsavia, i serbi sotto le bombe degli aerei, che decollavano dalla base di Aviano, o gli abitanti di Sarajevo.

Sempre dalla parte degli ultimi, si direbbe, la vita di Erri De Luca, sempre contro il Sistema. Le sue prime parole sono state: “Ho saputo che questo Festival si paga da solo, che non bussa a quattrini alle Istituzioni Pubbliche, e questa è una cosa simpatica, che si fa apprezzare ancora di più”.

In effetti, proprio quel voto immeritato che la maestra diede al suo tema su Fedro: “Ha incrinato il mio rapporto di fiducia nei confronti delle Autorità: diciamo che è stata una crepa leggera che è poi diventata una voragine. Non ci posso fare più niente. Insomma: per me le Autorità non sanno nemmeno vedere un panorama”.

Il suo racconto si anima quanto ricorda gli anni ’70, quelli del movimento operaio, quelli in cui si respirava l’appartenenza ad una collettività e in cui essere operaio era sinonimo di prestigio. Ecco: in quegli anni la disperazione sembrava aver trovato la sua ispirazione, parole come rivoluzione e comunismo “che noi non abbiamo inventato”, precisa Erri, sembravano aver trovato un nuovo senso, una nuova via, un obiettivo realizzabile giorno per giorno.

Ma tutto questo ebbe fine. Improvvisamente, con gli anni ’80, quella comunità non c’era più e tanti si persero, consumando tutta la loro “quota di appartenenza ad una generazione”, rimanendo soli e dovendo reimparare ad “arrangiarsi”.

Avvenne così che: “Alcuni si sono arrangiati con la lotta armata: una parte di Lotta Continua ha dato vita a Prima Linea. Molti di più sono quelli che si sono consumati con le droghe. Spicciole. Per togliersi di mezzo. Per smaltire nella maniera più violenta e brusca possibile quel ‘dopo’ che si era creato intorno a loro. Ecco, io mi considero un superstite. Non mi sono iscritto a nessuna banda armata per un motivo molto semplice, perché soffro di claustrofobia, e cioè: ho sempre fatto la mia attività politica all’aperto, in modo pubblico, davanti alle piazze, ovunque, per le strade. Andarmi a chiudere dentro una cellula per me era contro natura. Impossibile. Impraticabile” – fa in tempo a precisare De Luca prima del fatidico sguardo all’orologio. E qui il racconto si interrompe…

 

Post Scriptum: una domanda disperata

Questo post scriptum pone una domanda che non avrà mai risposta e che perciò, a pieno titolo, merita la qualifica di “disperata”. Sono ormai diversi anni che questa donna è sospesa. Sono diversi anni che in tanti provano a rilanciarla.

Ma Erri De Luca continua a rifiutare una risposta. E perciò non c’è alcuna speranza che risponda al sottoscritto. Nondimeno, proprio oggi, proprio io, proprio dalla bocca di Erri ho sentito ripetere che quello che conta non è che una battaglia sia vincente: quello che conta è che sia “indispensabile”.

L’hai detto proprio tu, Erri, per farci intendere il nucleo della tua anima anarchica. E io sono d’accordo con te, dal più profondo della mia anima. Allora, non fa nulla se la mia è una domanda disperata. Devo fartela lo stesso: “Perché, Erri? Perché?”.

Aiutami a capire. Tu che hai voluto sentire le sirene di Belgrado. Tu che hai condiviso gli stenti di Sarajevo. Tu che nel ’93 eri a Varsavia per ricordare i 50 anni della rivolta del ghetto. Tu che eri con i No Tap nel mio Salento, tu che punti il dito contro l’Occidente colpevole che dimentica la Siria. Tu che le tue battaglie politiche le hai fatte sempre all’aperto e ci ricordi che il Mediterraneo non è un muro. Perché?

Perché, nonostante siano in tanti a chiedertelo, non hai mai detto una parola contro il Muro di Apartheid, lungo più 700km e alto 8m, che separa la Palestina da Israele? Perché non hai mai avvertito l’urgenza di visitare un campo profughi al di là di quel Muro? Perché sui Territori Occupati non ci hai mai raccontato nulla? E verresti a vegliare una sola notte con me al checkpoint di Betlemme?

Mi scuso: avevo scritto che avrei fatto una sola domanda e invece mi è partita una raffica: non di proiettili, di domande. Tutte disperate, ovviamente.


FontePhoto credits: Paolo Farina
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La mia fortuna? Il dono di tanto amore che, senza meriti, ricevo e, in minima parte, provo a restituire. Conscio del limite, certo della mia ignoranza, non sono mai in pace. Vivo tormentato da desideri, sempre e comunque: di imparare, di vedere, di sentire; di viaggiare, di leggere, di esperire. Di gustare. Di stringere. Di abbracciare. Un po’ come Odysseo, più invecchio e più ho sete e fame insaziabili, che mi spingono a correre, consapevole che c’è troppo da scoprire e troppo poco tempo per farlo. Il Tutto mi asseta. Amo la terra di Nessuno: quella che pochi frequentano, quella esplorata dall’eroe di Omero, ma anche di Dante e di Saba. Essere il Direttore di "Odysseo"? Un onore che nemmeno in sogno avrei osato immaginare...

2 COMMENTI

  1. …Regola fondamentale della comunicazione: non porre domande di cui conosci già la risposta in special modo se essa non la condividi ovvero non creare imbarazzo al tuo interlocutore se sa di doverti rispondere in modo poco sostenibile al contesto dialogico in cui tu, lui e gli altri vi trovate.
    In buona sostanza … il buon Erri è in empatia con l’ebraismo e con Israele che lo “coltiva” come scrittore. Egli stesso ha imparato l’ebraico non l’arabo … e che dovrebbe fare? Parlare solo di Abele senza dare un cenno a Caino? E poi chi Abele … chi Caino? 👋🏻👋🏻👋🏻

    • Grazie, Giuseppe, per avermi ricordato le regole della comunicazione: il fatto è che non mi risulta che esistano regole precise per la “comunicazione disperata” e così mi son dovuto “arrangiare” – uso questo verbo con un significato differente da quello attribuitogli da De Luca. Quanto a chi siano Caino e Abele, sulla base di quanto i miei occhi hanno visto e le mia mani hanno toccato, io un’idea ce l’avrei, ma temo che sia un po’ differente da quella dell’Illustre, il quale, nel merito, sembra avere la certezza che Abele stia da una sola parte e Caino sia chi non si rassegna a perdere la propria terra e la propria libertà: i propri diritti di essere umano!

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