Educare, voce del verbo ascoltare
“Voi siete egoisti, stupidi, senza capacità di empatia, incapaci di comprendere le esigenze esistenziali, buoni solo a fare vacanze a spese dello Stato, scansafatiche, gente senza cuore, insulsi, stipendiati da licenziare in tronco, inutili, lontani dalle realtà”. Potrei continuare in questo elenco ma mi fermo. Tutte frasi raccolte sui social, fra Instagram e Facebook. A leggere ciò ti domandi chi siano entità così cattive. Chi sono questi che meritano tutto il male possibile? Tu pensi siano i cosiddetti furbetti del cartellino, alti dirigenti che intascano tangenti, magistrati corrotti e politici contro cui scagliarsi nel modo becero di fare dei social. Chi sono questi astrusi personaggi attaccati con così tanta rabbia? Hanno torto, sempre e comunque, perché c’è qualcuno lì, nel mare magnum dei social, che ne sa di più di te, che pontifica e ti indica come il male assoluto odierno. E loro, da soli, a combattere senza aiuti. Il mare dei social è questo. I profili di chi attacca questi poveracci spesso sono di persone che si associano a bandiere politiche, a bandiere della pace, a simboli religiosi, a immagini fasulle e a personaggi di cartoni animati o film. Altri ci mettono la faccia e con un linguaggio spiccio, poco educato, con citazioni autorevoli, di cui non capiscono il valore, accolgono la rabbia sociale e la gettano loro addosso sulla piazza virtuale. Se sei fra gli imputati sarai quanto scritto su, in righe dal linguaggio a volte minaccioso, fra applausi scroscianti. Anch’essi virtuali.
Allora cosa fanno questi personaggi sottoposti al linciaggio? Vivono la vita di tutti, soffrono come tutti, sperano e hanno paura come tutti. Sono persone, di regola, che se arrivano tardi al lavoro, pur non dovendo timbrare un cartellino, vengono pesantemente ripresi. Se nel luogo di lavoro, a causa di una assenza dovuta a un bisogno impellente o un incidente per strada, qualcuno si fa male, la colpa è loro. E basta. Voi mi direte che è assurdo. Ma è la regola. Pensate a un cassiere che, mentre è dietro la cassa a lavorare, sia responsabile di un incidente intervenuto a un cliente lontano da lui 50 metri, a causa di una finestra caduta o di un oggetto lanciatogli addosso. Povero cassiere, sarebbe sottoposto a una indagine disciplinare e giudiziaria, interrogato su fatti e controfatti. E lui dovrebbe dire che non c’entra. Era distante per motivi di necessità. Vivrebbe l’ansia che ogni mister X, oggetto del nostro articolo, vive quando si reca a lavoro.
Nessuno di voi vorrebbe stare lì a queste condizioni. Penserebbe a una dittatura ma non è dittatura quella in cui l’egoista di turno, oggetto dell’ira social odierna, vive. Anzi, è inserito in un processo democratico straordinario. Sarà allora un passacarte del politico di turno? Un ‘pianista’ di Montecitorio? No, mi spiace. Devono però compilare, come segretari, montagne di documenti on line, spesso stamparli nonostante l’ecologia dica il contrario, scrivere verbali su verbali e relazioni. Inoltre, sono da tenere perennemente accesi pc e cellulari. Ogni minuto è buono per una comunicazione. Nemmeno se si fosse la Protezione Civile o medici. Ma non lo sono.
Nel mentre vi scrivo leggo che questi sono divenuti, per autorevoli ascoltatori, responsabili di patologie psichiatriche. Si girano attorno e non vedono però come possano averlo fatto. Non hanno strumenti di tortura accanto, non hanno che un pc e voglia di serenità. È la normalità, diciamo che il loro vivere è sentirsi sotto accusa per ogni cosa, anche la più assurda. Comunque, continuo nella descrizione. Prima o poi non saranno più un ufo.
Sono persone che, quando lavorano non da casa, sono sottoposti a uno stress strano. Ti sei formato per altro, ma in questi periodi sono costretti a diventare medici. Se c’è un caso di malattia fra i fruitori del loro servizio, per cui non vale l’obbligo della mascherina come in ogni ufficio pubblico o negozio, devono segnalarlo alla Asl, prendere il malcapitato, portarlo in una sala isolata, misurargli la temperatura e tornare al lavoro come se niente fosse. Magari, altri fruitori allo stesso momento avranno contratto il virus più letale del XXI secolo, ad ora, e loro zitti. Chissà se giungerà mai qualcuno per tamponi a tutti e a loro che lì ci lavoravano da un’ora e mezza. Devono lavorare con la finestra aperta anche se fuori c’è la neve, devono ascoltare disagi, paure, ansie, devono controllare le regole continuamente affinché siano rispettate. “Ecco cosa sono. Esperti di sicurezza in una esercitazione”. No, mi spiace, ritentate per più fortuna.
Ma hanno una fortuna. Sono capaci di vedere il futuro realizzarsi. Mettono in campo azioni per la prevenzione dei rischi, si preparano anche fuori dall’orario di ufficio, sacrificano ore e ore della vita familiare per fare meglio quanto è loro chiesto. Sono allora progettisti sociali? Responsabili dell’attività manageriale di un’azienda? Acqua acqua. Nemmeno questo.
Per molti oggi sono dei noumeni, come avrebbe detto un filosofo. Sono e non sono, vivono e non vivono. Sono gli sconosciuti della società italiana. Non hanno un ruolo preciso per i più. Risultano anche scomodi, sempre lamentosi, divisi e senza quelle parti che identificano fisiologicamente un uomo. Sono i non coraggiosi, i pavidi, i felloni che non combattono le battaglie. Renitenti al servizio militare? No. Quello non esiste più ma loro esistono e combattono.
Nei luoghi dove lavorano non sono mai esistiti impianti di purificazione dell’aria. Non regolano in ufficio l’entrata delle persone. Pensate che in uno spazio ristretto a 20 metri quadri possono esserci anche 16 persone, senza obblighi di sorta. Non hanno i mezzi per lavorare, portano sovente il necessario da casa. E devono lavorare anche con altre persone nello stesso giorno su più stanze e, come se non bastasse, ne hanno altre collegate da casa simultaneamente. Un caos! Dovere fare due cose insieme li fa sentire multitasking ma non lo sono. Quando parte uno starnuto o un colpo di tosse senza mascherina cominciano a sentire il cuore battere all’impazzata per la paura se sono a meno di 30 cm. Alcuni sono eccezionalmente in smart working, ma per loro la regola dello smart working non esiste. È emergenza e si sono sottoposti alla necessità con la paura di essersi già infettati e di aver trasmesso questo corona virus ovunque, anche a casa, genitori anziani e malati compresi. Altri sono stati chiamati a lavorare in presenza, con una paura incredibile. Altri ancora hanno scelto di vivere il proprio lavoro come missione in presenza, per alcuni quasi suicida, perché questo lavoro che vivono è sacro. Bellissimo e affascinante. Ma sono sempre colpevoli. Anche se costretti e pur non volendolo.
In emergenza si svegliano puntuali ogni giorno. Se sono a casa accendono il pc, attendono che la connessione parta e sia veloce, utilizzano piattaforme che talvolta sono nate per altro e non per la loro attività. Non hanno minuti di pausa, a volte 5 ore consecutive seduti. Pausa di un attimo e poi ritornano a lavoro. Ci sono stati giorni in cui svolgono anche 11 ore di lavoro, oltre il normale orario di 8 h e senza straordinario pagato. Mobbing direbbero tanti. Ma ciononostante sono coloro che perennemente devono recuperare ore perse, mancate, tanto che si palesa che non avranno una estate. Recupereranno il non fatto quando il loro orario di lavoro è stato sempre ben scandito e rispettato. Voi che fareste? Non protestereste? Purtroppo, quando protestano il ministro di riferimento afferma che non capiscono nulla e che il bene è del cliente. La loro è o no un’attività produttiva? Certo. E giù test continui, anche di logica, matematica, inglese. Il bello è che si valuta il lavoro sulla base di questi soli parametri. Non vengono valutati per la trasmissione di valori, di competenze sociali, di intelligenze multiple. No. Tutto è ridotto a qualche fattore matematico. Sono cavie quindi della statistica? Sono tecnici della Borsa? No. Siamo i colpevoli del male educativo della Nazione. Sono i docenti e gli educatori. Pensate ai centri per minori, alle scuole d’infanzia in cui i ritmi sono diversi dal mondo di una fabbrica. Conoscete i pericoli che vivono? Come i docenti anche loro sono una professione che assimilo ai nostri mister X. Vituperati perché dimenticati. Ma esistono e fanno bene comune.
Ecco, io sono colpevole. Io sono un docente. Sono quello a cui volete stracciare le buste paga perché è scansafatiche. Quello che non ha a cuore i ragazzi perché afferma di volere sicurezza sul posto di lavoro. Quello che ha paura di essere contagiato e di non poter essere curato, perché molti delle regole non se ne fregano nulla. Sono colui al quale molti affidano la vita dei propri figli. Sono colui che non dorme di notte se qualcuno dei ragazzi sta male, se ha problemi, quello che cerca strategie per fare bene il proprio lavoro. Sono colui che a furia di stare ore al pc ha salva la vita, magari con una vista abbassata dal pc, ma può dire che domani potrà vedere il sole. Sono colui a cui è negata la vaccinazione subito, sono colui che non ha tamponi rapidi sul posto di lavoro, sono colui a cui tutto è chiesto ma che non può dire nulla, sono colui che ha 32 giorni di vacanza come tutto il pubblico impiego ma che sta sempre in vacanza. Sono colui che la pedagogia la studia a colazione ma sono per tutti un privilegiato, uno che sente da altri come si stia in classe. Io sono un docente. E di questo sono fiero. Pensate che la più grande ricompensa non me l’hanno data i pedagogisti o i politici ma i ragazzi. Un giorno mi hanno messo in video chat dei cartelli con su scritto “grazie di tutto prof”. Emozionante.
Chiederei ora a chi perde ore sui social bighellonando: “Vorresti fare il mio lavoro? Ma devi prenderti come me laurea, superare concorsi, prenderti specializzazioni, conseguire master e perfezionamenti e vivere ansie, vite e dover essere costretto a migliaia di circolari, pressioni, litigi con i genitori, a dover educare. E soprattutto perché non hai fatto il docente? Ti faceva paura?”.