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Serve il coraggio dei boccioli, fermi, decisi e delicatissimi

Equinozio, aequus nox, “notte uguale”. Cosa? Al giorno. L’equinozio è quel momento della rivoluzione terrestre intorno al Sole in cui quest’ultimo si trova allo zenit dell’equatore, per cui i suoi raggi cadono perpendicolari all’asse di rotazione della Terra. Per questo in tutto il mondo il giorno e la notte hanno più o meno la stessa durata. È curioso, però, che esso non sempre cada il 21 marzo: quest’anno, ad esempio, in Italia l’equinozio di primavera è coinciso con le 16.34 del 20 marzo. Più che un giorno, insomma, l’equinozio è un singolo istante.

C’è un equinozio anche nella vita: è l’istante in cui ti rendi conto che dentro di te giorno e notte, buio e luce se la giocano alla pari. È l’attimo della maturità, in cui deponi la corona del buonismo, ti svesti dei panni del perbenismo, esci dal ruolo di vittima innocente, immolata sugli altari del mondo dalla presunta violenza altrui, ti congedi dalla perfezione, saluti la candida immagine di te. Perché? Per guardare in faccia le tue brutture, l’aggressività che condividi con i tuoi (ipotetici, molto ipotetici) carnefici, l’errore che non accetti di aver commesso, il difetto che fai finta di non vedere, le tue precise responsabilità nelle reazioni degli altri, le tue bambinate, le tue sfuriate. Guardare, senza giudicare. Smetterla di sottrarre le ombre alla tua immagine, appiattita nello sforzo di apparire univoca e pacificata, privata della possibilità di essere un emozionante chiaroscuro.

È il momento in cui ti livelli al resto del mondo e capisci che non sei né migliore né peggiore degli altri, che la prospettiva che hai scelto per guardare le cose è di una parzialità imbarazzante, che il Sole illumina tutti i continenti allo stesso modo, senza distinzioni, come un destino e una missione comuni. È il battesimo della maturità, l’inizio della salvezza, l’incipit del godimento e la fine dello sforzo di voler essere ciò che non sei: perfetto, univoco, coerente, compiuto.

Ce l’hai fatta: evviva! Puoi togliere l’armatura, riposare, sorridere sinceramente, piangere senza vergogna, passeggiare con leggerezza sui sentieri del tuo cuore, lastricati di miracoli e ferite. E puoi smettere di credere che tutto il male e la sciagura siano capitati a te, che tutta la stanchezza, la lotta, i problemi e i doveri siano i tuoi: l’equinozio ti sta restituendo alla famiglia umana. Per cui guarda la tua ferita e la tua mancanza, il tuo vuoto e il tuo irrisolto: cura, perdona, guarisci, ma accogli anche l’inguaribile e l’irrisolvibile. Fallo, c’è di mezzo una serenità impagabile. Quella di chi non giudica, perché ha smesso di giudicarsi. Quella di chi non nega la sofferenza, perché ha imparato a soffrire. Quella di chi non si sente sempre e solo vittima perché ha smesso di dividere il mondo in assolutamente buoni e assolutamente cattivi. Quella di chi non sfodera l’arma della coerenza quando non ha nulla da dire, perché ha imparato che non c’è niente di male a perdere le parole a volte. Quella che non estorce dagli altri le parole di cui ha bisogno, perché ha smesso di manipolare e ha iniziato a confrontarsi.

È un cammino difficile, fatto di ordinaria vigilanza sul bisogno spasmodico di trovare il colpevole dei nostri vuoti e l’artefice della nostra inquietudine. Serve il coraggio dei boccioli, fermi, decisi e delicatissimi. Serve l’adultità dell’inverno, che non teme di scomparire a fronte della magnificenza dalla primavera. Ha imparato che in lui morte e vita, pericolo e possibilità, buio e luce, cose opposte convivono, come in ogni stagione, come in ogni persona. E non lotta. Serenamente, fa spazio.


1 COMMENTO

  1. Molto profondo e soprattutto molto sentito e ispirato. Lo leggerò più volte affinchè possa farne una terapia benefica. Complimenti!

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