È violenza pure non pretendere il massimo dalla sua intelligenza
Non c’è una parola più ab-usata. Non c’è una parola più fraintesa. Non c’è una parola più impiegata per “fare altre parole” (G. Rodari), certo non sempre per parlare, per creare legami. Troppo spesso, ancora, solo per fare retorica, sperando di abbagliare con l’eloquenza e distogliendo dai dettagli che hanno bisogno di una messa a fuoco più lenta. E si dicono cose, tante cose, girando attorno ai significati profondi, solo per evitare la fatica dello scavo.
Da domina, “donna” significa anzitutto “signora”, un termine particolarmente caro agli stilnovisti, che nelle ma-donne intravedevano un tramite diretto con il Divino e che nella Madonna ritrovavano la femminilità archetipica.
Nel mondo antico e medievale si maligna pure, giocando con la fantasia. Così, si immagina che femina derivi da fe minus, cioè “fede piccola, inferiore”: femmina sarebbe colei che, per costituzione, è esposta alla “creduloneria” e alla “superstizione”. Si tratta di difetti classicamente attribuiti al genere femminile, basati su un’etimologia assolutamente errata, eppure capace di fondare il Malleusmeleficarum, il “Martello delle streghe”, manuale di pugno maschile utilizzato ai tempi della caccia alle streghe.
“Femmina”, in realtà, trova il suo etimo in fecundus. E anche se l’idea richiama immediatamente l’attitudine alla procreazione e alla generazione, ci si dovrebbe seriamente sforzare di considerare la fecondità nella sua accezione più ampia. Altrimenti l’utero diventa una trappola, una vocazione a senso unico, una missione a cui chi si sottrae, per scelta o per destino, resta bollata come “femmina a metà”, “donna incompleta”. La fecondità può interpellare anche la capacità, a prescindere dal genere, di dare e ridare vita ai luoghi, ai volti, alle cose, restituendo senso o creando significati inediti.
Che l’utero sia da decenni l’assillo e il vessillo di numerosi dibattiti politici, è presto detto. E dal 1968 ad oggi cosa è cambiato? Tutto e niente. Alcune cose, poche, incedono. Altre regrediscono. Il tutto a suon di parole vuote e in un clima generalizzato di violenza, come sofferenza fisica, come violazione generale della dignità, come esposizione a un regime di parole, gesti, simboli che intrappolano tanto quanto i pregiudizi espliciti. E se si fatica, ancora, a cogliere la gravità del femminicidio come fenomeno sociale e come conseguenza di un’educazione distorta e distorcente, non si è assolutamente pronti, ancora, a cogliere la violenza celata in un certo andazzo culturale, sociale, dialogico.
Così, in ambito politico, universitario, ecclesiale si continua a sperare in questo fantomatico “effetto donna”, riducendo ogni questione a una questione di genere malamente architettata. In altre parole, si spera in buoni risultati, si crede di poter convincere, si pensa di rifare il look di istituzioni vetuste semplicemente invocando la potenza del femminile, come gli adoratori della Venere di Willendorf. Addirittura, si punta alla donna in casi eccezionali di necessità e urgenza: che sia adatta o no, che effettivamente possa o meno, a mali estremi, a rischi e pericoli estremi, la donna di turno viene immolata. Peccato che l’“effetto donna” non funzioni, talvolta in modo eclatante.
Si ipercelebra, si concedono posti d’onore, si organizzano convegni e incontri, si passa pure il microfono, ma senza intaccare sul serio le prassi, senza credere che veramente occorre e urge riequilibrare la relazione tra i generi.
Si punta sul sensazionale e si sottolinea continuamente «per la prima volta una donna…», «la prima donna che…», «detto da una donna è…», senza rendersi conto che queste sono solo toppe su strappi antichi, i quali non fanno che strapparsi ancora di più.
Si punta ad aumentare le “quote rosa”. Si inneggia a presidenze politiche e accademiche femminili. Si scrive, ancora, di “genio femminile”, “unicità femminile”, “potenza femminile”, in una retorica stucchevole, vuota tanto quanto il commento: «non vi sta mai bene niente!». Ma senza scardinare i sistemi da dentro. Senza garantire alle donne un accesso adeguato agli strumenti di pensiero e ai mezzi di espressione, perché la parità inizia quando tutte hanno libero accesso alle medesime possibilità. Tutte, non solo quelle tranquillizzanti, consenzienti, confermanti i modelli precostituiti dalle storiche gerarchie maschili e le scelte da esse già fatte. Tutte, anche quelle polemiche, scomode e poco rassicuranti.
Il tutto con le migliori intenzioni e senza alcuna cattiveria, sia chiaro. Peccato che la complessità dei vissuti suggerisca continuamente che si può operare il male anche senza volerlo, anzi che le cose peggiori accadano quando le luci dell’intelligenza sono fievoli e la banalità si accovaccia alla porta dei cuori.
È violenza anche abusare della presenza femminile e renderla parte di strategie attrattive. È violenza anche esporre corpi, presenze, voci di donne come ultima scelta, quando non si sa cos’altro fare. Ed è violenza pure non pretendere il massimo dalla nostra intelligenza, convincerci che «è già tanto essere lì dove siamo» e che il minimo sindacale è il massimo raggiungibile. Perché di passi ne sono stati già fatti tanti. Perché, in fondo, dovremmo ringraziare, benedire gli adoratori, garantire loro la rassicurante certezza di essersi comportati da persone brave e aperte.
E invece dovremmo scavare dubbi. E dovremmo studiare, studiare e ancora studiare, perché abbiamo il dovere di essere formate e preparate. E dovremmo fare alleanza, senza storcere il naso se qualcuna ci fa notare che stiamo rallentando il cambiamento. Dovremmo piuttosto sentire la nausea per quello che, ancora, subiamo. Spesso con la nostra complicità.