«Ahimè, che piaghe vidi ne’ lor membri,
recenti e vecchie, da le fiamme incese!
Ancor men duol pur ch’i’ me ne rimembri»
(Inferno XVI, vv.10-12)
Dante e Virgilio proseguono nel loro passaggio lungo il terzo girone del settimo cerchio. Sono quasi al limitare del burrone che li separa dal cerchio successivo e sentono il fragore delle acque del Flegetonte che precipita nel baratro.
Incontrano tre anime che si separano dalla loro schiera e corrono loro incontro pregandoli di fermarsi ad ascoltarli. Si tratta ancora una volta di tre illustri fiorentini: Tegghiaio Aldobrandi, Iacopo Rusticucci e Guido Guerra e il dialogo che ne segue è nuova occasione per una ulteriore invettiva nei confronti dei corrotti costumi della città natia dove non albergano più «cortesia e valore» (v. 67), ma solo l’ambizione di «gente nuova»; il riferimento è a quanti si sono inurbati a Firenze, attratti dalla brama di «sùbiti guadagni», dalla possibilità di accumulare facili ricchezze grazie all’usura e al commercio.
Terminato il cortese scambio di saluti tra concittadini, Virgilio e Dante hanno il problema di come superare il precipizio e il poeta ricorre ad uno stratagemma che ha lo scopo di creare suspense, tanto che verrà sciolto solo nel prossimo canto: Dante ci informa di portare con sé, sin dall’incontro con la lonza, una corda che passa alla sua guida; questi la lancia nel vuoto quasi a dare il segnale ad un essere alato, non meglio descritto, che muove verso di loro come se nuotasse nell’aria oscura e spessa: uno scenario in grado di far inorridire anche il cuore più impavido.
Sin qui, in breve, l’argomento del canto. Ora, caro lettore, adorata lettrice, come d’abitudine ti chiedo un minuto per proporti un’emozione condivisa.
I versi che mi han colpito questa volta sono quelli che trovi in esergo. Provo a parafrasarli: “Ahimè, quali e quante piaghe vidi nelle loro membra, alcune ancora fresche, altre ormai vecchie, tutte prodotte dalla pioggia di fiamme! Il solo ricordarmene, tuttora mi provoca dolore”.
Ecco, dolore e compassione. Due termini che sembrano sovrapponibili, ma che a me appaiono in qualche misura antitetici. Prova dolore chi sente male, chi è afflitto, suo malgrado, da una sensazione spiacevole. Prova compassione chi con-patisce, chi accetta di soffrire con chi soffre o, più semplicemente, non può restare indifferente. Il dolore è sempre passivo. La compassione può essere una scelta oppure un modo di essere.
Il “duol” di Dante, alla vista dei suoi concittadini, non mi pare essere un mero dolore. È compassione. Egli stesso precisa che, se potesse, si lancerebbe nel sabbione infuocato pur di abbracciarli. Non prova disprezzo, il poeta, solo partecipazione.
E già, è proprio strano l’Inferno di Dante. È un universo dove hanno luogo pietà e compassione, rispetto e ammirazione. È molto meglio di tanti paradisi terrestri: luccicanti, ambiti, contesi, ma il più delle volte alienanti. Insomma, il contrario della compassione: chi si aliena si fa estraneo a se stesso, chi compatisce è tanto intimo all’altro da farsi con lui una carne sola e un solo abbraccio.
Ahinoi, gli abbracci: quanto ci mancano!
Martin Buber: «Il mondo non è comprensibile, ma è abbracciabile».
E Alda Merini: «Ci si abbraccia per ritrovarsi interi».