
«La natura ci mostra solo la coda del leone. Ma non ho dubbi sul fatto che dietro vi sia il leone anche se non può mostrarsi tutto a un tratto. Lo vediamo soltanto nel modo in cui lo vedrebbe un pidocchio se gli stesse addosso»
(Albert Einstein)
In frantumi, così si era svegliata. Già, con uno di quei fastidiosissimi promemoria dei social, i quali non perdevano mai occasione per allenare la rimembranza: l’anno prima aveva pubblicato la foto di sé risolta in un bicchiere di vino andato in pezzi e aveva improvvisamente risentito dolore di ogni taglio che quei cocci di vetro le avevano inferto.
Ne era passata di acqua sotto i ponti, quei tagli si erano cicatrizzati, non recavano più alcun dolore, avevano lasciato i segni: niente di più naturale.
Oggi, però, era oggi. Quel domani è un altro giorno che non se ne era mai andato Via col vento, ma era rimasto indefesso a farle compagnia con un volto apparentemente nuovo ogni mattina. Di nuovo era lì a tirare le somme di quanto le accadeva e, senza dubbio, anche quello era un momento davvero molto lontano dall’idea del Carnevale di Rio.
Era in bilico, con un equilibrio assolutamente instabile, in mezzo a tutta una serie di esseri umani ai quali avrebbe voluto chiedere di smettere di parlare come lei fosse assente, poiché non aveva avuto nessuna paralisi alle sinapsi, almeno non ancora. Si sentiva spesso a disagio, disorientata poiché sbalzata fuori dal suo cantuccio rassicurante.
Aveva la testa in perenne sbalzo fra moto ondulatorio e sussultorio, non nutriva più alcuna speranza di poterla fermare, nonostante la stanchezza a tratti si facesse sentire: in eterno stato di chi va là, dietro un invisibile muro di cinta che impediva qualsivoglia tentativo di relax.
Pensava spesso al precipizio di Jean Paul Sartre, secondo cui per saltare necessita un istante in cui è indispensabile smettere di ragionare: l’incoscienza, il balzo, sia quel che sia.
E mica non era accaduto: Sartre parlava di incoscienza per amore fra uomo e donna, la sua era continua incoscienza per amore verso un’intera comunità e, non c’è da nasconderlo, per amor proprio, ma pur sempre incoscienza era.
Si sentiva ed era un libro con righe chiare di parole sensibili e taglienti, nessuno sapeva intravederne le fragilità, si pungevano e andavano via. Era sempre stata e si era sempre sentita come un libro aperto, circondato da analfabeti, esattamente come l’aveva descritta Sylvia Plath nella sua Campana di Vetro; spesso era esattamente un cavallo da corsa in un mondo senza piste, altrettanto spesso si era trovata a dover rinunciare a misurare gli altri in base alla sua velocità e sforzarsi di andare avanti con i post-it attaccati sotto lo specchio del bagno tipo: non farti mancare niente.
Erano anche quelli un mondo per tenere a mente che non esiste faccenda umana priva di scopo, incluso lo stesso dono della fede che tante volte la vita aveva provato a scardinare da lei, senza mai riuscirci: in verità, nonostante obiettivamente ne avrebbe avuto ben donde, si accorgeva di non aver mai nemmeno nutrito il dubbio che la sua fede fosse vana, ma mai, mai. Era l’essenza propria della fede, infatti, a vivere dentro la continua necessità di metterla alla prova; lo aveva imparato a forza di finire in strade e viottoli paralleli in cui le sembrava di sapere ed in cui, invece, ogni volta doveva fare ammenda e sedersi, per imparare cose nuove. E le piaceva. Amava certe fatiche.
E dunque? Dunque, come ogni essere umano alla sua stregua aveva una scelta: essere Elsa Lion, la giornalista di Amsterdam, o Elsa Lion, l’ingegnere di Vancouver. Solo questo? Ben poca cosa: c’era un’Elsa ancora, sempre nuova, poteva trovarla in ogni momento e sarebbe stata quella che lei stessa non aveva ancora incontrato ed ancor meno conosciuto. Si sarebbe trattato solo di decidere quale delle innumerevoli versioni essere in un dato momento e farlo senza consentire a nessuno di provare nemmeno da lontano a deciderlo al suo posto.
Si chiamava Elsa Lion, credo sia ormai chiaro, i suoi genitori non avevano scelto a caso l’accoppiata: portava, infatti, il nome di una leonessa e la storia narrava che quel felino si aggirasse in un posto particolare insieme ai suoi simili ed insieme a Madiba, un leone superbo e fiero dapprima sequestrato e maltrattato e poi liberato. Similis cum similibus, inter pares, do ut sim.
Esseri viventi con una dignità personale: istintiva nel mondo animale, sentita, costruita e ragionata nel mondo bipede, abituati a lasciar correre all’occorrenza e ad affrontare quando necessario. Personaggi consci, coscienti e consapevoli del fatto che, come aveva già sapientemente sottolineato Paul Valéry, quando non si può attaccare il ragionamento, si attacca il ragionatore, a qualunque razza egli appartenga.
E dunque Elsa Lion, l’astronauta di Helsinki, o Elsa Lion di cui ancora non si conosceva identità, sapeva bene che se alle iene spesso veniva regalato dalla sorte l’incosciente coraggio di attaccare i leoni, dacché mondo era mondo, il ruolo di re della Savana non era mai stato spodestato da alcuno; e lo riscopriva ogni mattina quando, aprendo l’armadio per prendere una camicia, lo specchio dall’interno delle ante le restituiva l’immagine del felino con le zampe possenti eppur leggere, il passo silenzioso e fluttuante ed il ruggito (spesso silente) di chi sa sbranare le iene, mentre chiacchiera sentitamente ed amabilmente con i passerotti.