
«Quando capirai cosa è la vita, non avrai più paura della morte»
(Angela Morelli a 17 anni)
Il cervello è una realtà bellissima e complessa, una realtà che tende a fare il suo mestiere: creare schemi, salvare tutto il salvabile e per questo, quando il cervello c’è, il rischio è ridotto al minimo.
Quando si usa la testa, si esce sempre in qualche modo vincenti e chi la fa lavorare, fa sempre e comunque cosa giusta. Vincere così è un rispettabilissimo fatto risultati concreti, misurabili e quantificabili.
Esiste poi un’altra realtà: forse è quella degli incontentabili. Le cose quantificabili sono belle, ma non saziano; sono soddisfacenti, ma non nutrono; sono lo scopo, non sono la strada.
Usare il cervello significa parlare di qualcosa al mondo, perché il mondo ascolti: quindi farlo in modo lucido, razionale, controllato, con mestiere.
Saziarsi significa, invece, parlare con qualcosa sperando che il mondo capisca, senza fare di quell’ascolto uno scopo irrinunciabile.
Qual è la differenza?
Quando si parla con la testa di qualcosa, le si cammina addosso – spessissimo senza saperlo -, con la fretta della logica si dice, non si chiede: salvo poi impiegare più tempo, perché il cervello ha bisogno che tutto sia detto, non lascia niente all’autonomia e alla meta comunque porta e porta bene. Il cervello è soddisfatto, non percepisce la detrazione. Ha fatto il suo. Ha vinto.
Quando, invece, si parla con qualcosa, non si punta a un risultato, non si corre e si cura ciò che accade. Il tempo è lo stesso, ma in quel tempo si presta attenzione, si fanno domande, si lascia che arrivino risposte, non si definisce e si crea con quel qualcosa la connessione che otterrà lo stesso risultato cerebrale, con un punto in più: il coinvolgimento.
“Aiutami a fare da solo” era l’insegnamento che Maria Montessori dava agli insegnanti per esortarli a farlo con i bambini. Gli unici insegnanti che ci sono riusciti sono stati quelli che senza mai lasciare il loro posto, hanno saputo risplendere dall’angolo. Qualcosa di molto difficile da imparare a fare.
Insegno ed evidentemente queste cose le so, altrimenti non le direi: il punto è che non ho smesso di dover imparare e dunque imparo. A volte anche pesantemente.
Gli alunni non potranno mai cancellare il modo in cui li faccio sentire e che Dio mi fulmini se mai dovesse venirmi in mente di sostituirmi a loro, ogni volta in cui saranno le loro budella a doversi spappolare per arrivare da qualche parte.
Dovrò sempre saper essere con loro, per loro. E niente altro. Non il mio cervello, ma le loro budella. A loro il bisturi lama dieci, a me l’aspiratore nel caso troppo sangue impedisca d’improvviso di vedere bene l’organo: loro i chirurghi, io lo specializzando. Nella peggiore delle ipotesi, dopo, potrò suturare. Ma solo se necessario.
Le vedete e le sentite quelle budella? Sono meravigliose perché fanno vacillare il cervello universale. Per questo il cervello va arginato subito; da solo lui non si scosta, deve saldamente emergere.
Ebbene sia, non sarà mai il mio.
N.B. Devo dirvi chi è Angela Morelli in citazione iniziale. Angela è una ragazza diciassettenne che frequenta un corso di formazione per l’assolvimento dell’obbligo scolastico. Appartiene al gregge alunni reietti, dico bene? Dico bene. È stessa ragazza che mi stava guardando con un sorriso a metà fra il dubbioso e l’incredulo, mentre scrivevo la sua perla di saggezza sul display del mio cellulare, durante una pausa, per non perderla. Stava solo parlando con una compagna quando le è uscita come fosse un rutto dell’anima.
– Che c’è Angela? Perché mi stai fissando? Si vede che esce orgoglio da ogni mio poro?
– Sì, mi ha risposto senza cambiare espressione.
Ha visto che ero orgogliosa di lei. Eppure non avevo emesso nemmeno un suono.
Sono un’insegnante.
In pausa, mentre apparivo distratta, stavo ascoltando e ho fatto dei movimenti involontari senza voler esprimere le mie intenzioni in alcun modo; nondimeno, di fatto, Angela ha sentito che ero fiera di lei.
Dopo diverse e pesanti perdite, con Angela in quell’istante ho vinto.