Quando si racconta una storia, il rischio di sembrare prolissi o laconici è alto e fondato. Una storia, qualsiasi essa sia, è fatta di sfumature, è scevra da influenze manichee, l’oggettività del bianco e nero lascia spazio all’interpretazione, al contesto storico, all’ambiente socio-culturale di una radicata ideologia.

Spesso, purtroppo, sono proprio le ideologie a generare conflitti, eterna lotta fra bene e male, una guerra in cui a vincere è la più forte, armata e stupida disumanità. Una partita, insomma, specchietto per le allodole, appiglio di un’Italia che abbandonava l’oscuro periodo del ‘15-‘18, per abbracciare una speranza destinata alla vergognosa costruzione di forni crematori.

Arpàd Weisz aveva una discreta tecnica di base, giocava semplice, il suo stile era ordinato ed efficace, in campo trascinava una sobria eleganza, quella innata correttezza che ti fa guadagnare il rispetto di compagni e avversari. Bertolt Brecht ha scritto ”il più grande complimento che si possa fare ad un uomo è definirlo una brava persona”. Weisz di complimenti ne riceveva davvero tanti, ma, si sa, uno sportivo viene giudicato soprattutto dai risultati che riesce ad ottenere, vive in costante funzione della sua performance, resta alla memoria per le medaglie cucite sul proprio petto.

Sotto il petto di Weisz, però, batteva un cuore diverso dal solito, globuli rossoblù e piastrine nerazzurre celavano, invano, un disonorevole sangue magiaro. Figlio di ungheresi, infatti, Weisz trascorse gran parte della carriera da calciatore semiprofessionista prima, e allenatore poi, tra Cecoslovacchia, Uruguay e, appunto, Italia. Già, infatti, ad appena trentaquattro anni, vinse uno scudetto con l’Inter e altri due con il Bologna.

’Qualcuno sa dirmi che fine ha fatto Weisz? Era un bravo allenatore, ma era anche ebreo’’. A questo dilemma di Enzo Biagi ha provato a dare un’esauriente risposta il giornalista e scrittore, Matteo Marani, direttore de Il Guerin Sportivo, che, attraverso il suo libro Dallo Scudetto ad Auschwitz, ha ricostruito fedelmente gli ultimi giorni di Weisz in un campo diverso da quello su cui si era sempre trovato a proprio agio, un campo di concentramento fatto di semplici schemi, ruoli predefiniti, moduli di gioco che seguivano l’unica tattica possibile: l’inutile sopravvivenza e l’inevitabile soluzione finale!

La mattina del 31 gennaio 1944, l’Alta Slesia venne ricoperta da una neve fitta e sottile, quasi a voler coprire tutte le nefandezze della Seconda Guerra Mondiale. Quella mattina, Arpàd Weisz non risponde all’appello delle guardie, perché avrebbe dovuto? Nel ’42 aveva perso sua moglie Elena e i suoi due bambini, Clara e Roberto, nelle camere a gas di Birkenau, il suo corpo era quello di un atleta ma la sua mente era ormai altrove, si era consegnata all’infame destino e all’eterna memoria del calcio italiano. Finalmente, la mattina del 31 gennaio 1944, il corpo ha raggiunto la mente sul verde prato di un’ingiusta innocenza che sapeva di tremenda sconfitta!

Voi che vivete sicuri nelle vostre tiepide case, voi che trovate tornando a sera il cibo caldo e visi amici: considerate se questo è un uomo che lavora nel fango che non conosce pace che lotta per mezzo pane che muore per un sì o per un no. Considerate se questa è una donna, senza capelli e senza nome senza più forza di ricordare vuoti gli occhi e freddo il grembo come una rana d’inverno. Meditate che questo è stato: vi comando queste parole. Scolpitele nel vostro cuore stando in casa andando per via, coricandovi alzandovi; ripetetele ai vostri figli. O vi si sfaccia la casa, la malattia vi impedisca, i vostri nati torcano il viso da voi.

(Se questo è un uomo, Primo Levi)