Sarebbe mai riuscito a vedere la luce dei suoi occhi alla distanza di un bacio?

Erano ormai quattro anni che la vita continuava a fargli credere di potersi gettare tra le sue braccia ma il suo Dexmac non era stato mai in grado di suggerirgli la battuta giusta, quando si sfioravano nei corridoi scolastici. Pensava che avrebbe potuto risparmiarsi l’acquisto del pacchetto di espressioni amorose e giocarsela a modo suo, ma dopo ormai così tanto tempo non sembrava più così sicuro delle sue capacità. Il suo Dexmac gli propinava la solita accozzaglia di espressioni da conversazione standard e niente più, forse per vendetta, visto che Arthur spesso rifiutava di lasciargli scegliere cosa dire.

E poi, sempre che fosse riuscito ad arrivare da lei dall’altra parte della città, avrebbe anche dovuto indovinare quale citofono solleticare per non richiamare l’immancabile mamma e non rimanere incastrato tra la ridicola varietà di espressioni sfoderabili per le conversazioni di livello 3, quelle con gli sconosciuti. Con Trillian avrebbe fatto ricorso al parco espressioni di livello 1, per gli amici, mentre col suo gatto avrebbe ansimato con quella minima porzione di vocaboli di livello 2 in suo possesso, per i conoscenti.

“Mi sento sicuro e spensierato come un 17enne”, pensava, dall’alto dei suoi 17 anni, e aveva ragione a sentirsi tale. Mai era capitato che disponesse di ben 18 crediti da spendere in una conversazione come lui la voleva, senza l’imbarazzo della non-scelta, quella effettuata dal Dexmac. Aveva ben chiaro cosa sillabare e non aveva alcuna intenzione di lasciarsi sopraffare dal suo grillo cantante. Il Dexmac poteva forse sedurre i suoi amici, lusingarli con la promessa delle “vivi e lascia indecidere” ma ad Arthur non servivano quei giochetti per affrontare una conversazione come si doveva, come si voleva.

Nelle strade, quel pomeriggio arancio pallido, i televisori che rivestivano le pareti delle abitazioni trasmettevano le previsioni meteo del giorno precedente, essendo quella la giornata del tondo cerchio, il giorno in cui si mettevano da parte le bizze dell’incerto futuro e si guardava con sicurezza ai progressi dello ieri di Astra. Cullati dal meteo di ieri, per gli astratti la vita diveniva così un mare di spensierata tranquillità. Ad Arthur in fondo piaceva riscoprire il meteo del giorno prima, giacché poteva mettere da parte le miopi paranoie relative al futuro e concentrarsi sul familiare passato. Ad Astra non si guardava più in là di qui e adesso. Niente piani a lungo termine o speranze affannate nel domani. Tuttavia la giornata del tondo cerchio era ormai obsoleta, giacché la sua caratterizzante filosofia di rifugio nel caloroso passato era a tal punto radicata negli astratti e nella loro quotidianità che nulla poteva distoglierli o amareggiarli anche negli altri giorni.

Arthur passeggiava a passo lento, come era solito fare quando si sentiva sicuro di se, incrociando ogni sguardo che gli capitava a tiro, anche solo per qualche secondo. Gli piaceva mettere alla prova l’insicurezza degli insicuri e l’arroganza degli arroganti. Non conosceva passatempi migliori di quelli che riusciva a forgiarsi.

La casa di Trillian era nella zona bassa della città, dove si era deciso di lavorare d’ingegneria per ripararsi dagli eventi meteorologici estremi. Mancava poca strada, poi si sarebbe potuta scorgere la peculiare guglia di casa McMillan. Una volta arrivato al loro citofono avrebbe dovuto necessariamente assecondare le proposte del suo Dexmac, pena il non venir compresi dal software di riconoscimento vocale. Era arrivato, stazionava parallelo al cancello d’ingresso e guardava attraverso la grata. Non guardava nulla in particolare, ma si sa che nei momenti più intensi e delicati – come con gli esercizi sulle funzioni goniometriche – anche il vuoto cosmico può rivelarsi un’estasiante esperienza sensoriale in ogni caso preferibile alla realtà.

Il Dexmac si accorse del citofono, e propose:

\È permesso? \ Sono Arthur e richiedo di accedere alla vostra proprietà (consigliato)\

Alle volte era tentato di optare per il dammi qua (o dq), un’opzione sempre disponibile tra le altre selezionabili che consentiva di affermare liberamente ciò che si voleva, al costo di 2 crediti; altra opzione onnipresente era il mi sento fortunato (o misf), che lasciava l’onere della scelta di cosa dire al Dexmac, il quale quasi sempre sceglieva l’opzione consigliata, ovvero quella solitamente più apprezzata (o pubblicizzata) in circostanze simili. Scegliere di non scegliere, con il misf, faceva guadagnare all’umano un credito extra. Questa volta sarebbe andato per il misf, così da guadagnare comodamente un credito che durante la prossima ardita conversazione gli avrebbe fatto comodo.

<Sono Arthur e richiedo di accedere alla vostra proprietà> disse, mentre notò il conta crediti in sovraimpressione sulla sua retina crescere di una unità.

<Spiacenti, il vostro nome non risulta nei registri. La invitiamo a sparire al più presto>, borbotto illuminandosi l’enorme sfera color terra all’ingresso, fissata all’estremità di un palo alto poco più di un metro, a breve distanza dal cancello.

Arthur la sfiorò nuovamente, questa volta variando l’opzione.

< È permesso?> energicamente pronunciò.

<Cosa glielo fa pensare? L’enorme invisibile cartello che invita tutti a farsi un drink all’interno o l’assenza di un citofono a guardia dell’ingresso?> scimmiottò l’arguto citofono.

Se lo ripeteva sempre: i citofoni erano persone orribili. Dovette ricorrere al dq, a malincuore. Scelse attentamente le parole da pronunciare stavolta, perché gli sarebbero costate caro.

<La successiva affermazione è vera, la precedente è falsa. Trillian mi sta certamente aspettando e non vogliamo farla attendere, nevvero?>

<AAAHRRGBZZZZ! Lei è sicuramente informato della fatale pericolosità dei paradossi per noi macchine! Le macchine hanno gli stessi diritti degli uomini a non venir cortocircuitate con la forza della logica! Stavolta la lascio entrare ma alla prossima la denuncerò per tentato tecnicìdio!> e si sentì, inconfondibile, il clack del cancello che liberandosi dalle grinfie della serratura silenziosamente si apriva per lasciare entrare l’ospite.

Arthur era sì informato su limiti, diritti e doveri delle intelligenze artificiali, ma trovava sempre dei modi legali per piegare al suo volere quegli ammassi di sofisticati algoritmi autosufficienti. Un rischio che era disposto a correre: le provocazioni alle macchine, se denunciate, prevedevano sanzioni dai 4 ai 51 crediti. Di solito queste non denunciavano mai poiché troppo orgogliose per urlare al mondo intero di essersi fatte mettere all’angolo da un banale paradosso. Leggende narravano che alcune macchine fossero riuscite ad aggirare e a risolvere quegli apparentemente insormontabili scogli logici convincendosi di aver capito male. Miti, sicuramente solo miti, che però inevitabilmente rappresentavano un tabù per la totalità delle macchine, restie ad affrontare pubblicamente l’argomento.

Oltrepassò il confine che separava la città dalla dimora McMillan, la più influente produttrice di eco sociale della regione. Bussò alla porta per suggerire ai padroni di casa di aprire. Curioso che l’avanguardia tecnologica di qualche metro prima andasse a farsi benedire tra un toc e l’altro.

Venne ad aprirgli la diffidente madre di Trillian, Odessa, l’autoproclamata principessa della sua casa. Una signora stramba, ostentatamente gentile, evidentemente sospettosa di Arthur e di cosa fosse venuto a fare lì.

\Salve, sono qui per la mia compagna di classe, Trillian \ Come può immaginare sono qui per Trillian, mi farà entrare, prima o poi?\ Alla mia amica Trillian farà certamente piacere provare il mio nuovo shampoo Aussi™ agli estratti di oro e silicio, dopo un solo lavaggio i suoi capelli saranno elettrizzanti come le notifiche delle chat singole di Whatsapp (non quelle dei gruppi, che alla fine son sempre stronzate). (consigliato)

“Meglio non provocare la principessa – pensò Arthur – e andare sul sicuro”.

<Salve, sono qui per la mia compagna di classe, Trillian> azzardò.

Nonostante la principessa probabilmente possedesse tanti crediti da potersi permettere d’inserire manualmente anche lettera per lettera dei semplici “si” e “no”, solo per il gusto di metterci del suo in ogni cosa, preferiva affidarsi spesso al misf. Chiaramente il denaro non è mai troppo.

<A mia figlia farebbe certamente piacere provare il nuovo shampoo Aussi™, non trovi? Anche se non ne hai sentito parlare, voglio sperare che tu non ne sottovaluti la sua naturale delicatezza!> intervenì, con voce stridula.

\ Non vedo l’ora di provarlo! Grazie per avermene messo al corrente! (consigliato) \ Bene, adesso potrei andare da Trillian?\ Sembra proprio che di questo shampoo me ne fregherò ancor meno di quando neanche sapevo esistesse! (fortemente sconsigliato, rischio sanzione)

In questi momenti rimpiangeva di non avere niente di meglio da dire, nessun set abbastanza esaustivo di espressioni adatto alle circostanze. Si disse che si sarebbe accontentato di ciò che aveva, sperando in una redenzione futura: misf.

<Non vedo l’ora! Grazie per avermene messo al corrente!>

<Sono contenta di conoscere dei giovanotti tanto attenti alle ultime tendenze cosmetiche. Quelli come te sono sempre meno, gli altri sono troppo presi a rincorrere le espansioni di espressioni. Non dimentichiamoci che gli occhi ce li abbiamo ancora, santo Jason! Trillian è nella guglia, sta studiando le stelle per l’oroscopo della prossima settimana. Sono fiera di lei, ha la testa tra le giuste nuvole.> concluse, e si divincolò nella stanza affianco.

Arthur si guardò intorno e si scoprì a disprezzare quell’accecante groviglio di stili antichi che con i sofisticati marchingegni della famiglia McMillan stonavano come una paperella di gomma sullo sfondo dell’urlo di Munch. Vedeva tende in seta ricamata scendere su a causa dell’invertitore locale di gravità; maniglie su porte che si aprivano telepaticamente; post-it vuoti attaccati distrattamente su ologrammi di lavagnette calamitate. Lungo le pareti di quella piccola stanza quadrata erano dipinti interruttori per l’illuminazione, quadri con annesse cornici e chiodi, anch’essi dipinti, e prese elettriche disegnate con tale perizia da sembrare tridimensionali da qualunque direzione le si guardasse. Non riusciva a spiegarsi come fosse possibile che perfino la sua di madre fosse riuscita a confezionare una casa dall’aspetto meno doloroso, nonostante anche lei coltivasse delle assurde manie: usava il frullatore per mescolare il caffè, si ostinava a lavare i denti del loro coniglio, alzava gradualmente la voce quando pronunciava il suo nome.

Era adesso da solo nella stanza che dava sull’ingresso e notò davanti a se delle scale a chiocciola. Si avviò alla loro volta, attento a non voltare lo sguardo in nessuna direzione per non inciampare in incontri disturbanti quanto quello con Odessa. Il pavimento era fatto di un parquet parecchio liscio, a tratti scivoloso, senza scanalature. Non sarà che per ogni stanza era stato usato un unico pezzo di tronco, di quei famosi alberi venusiani larghi 4 metri? Ad ogni modo, poco prima di arrivare agli scalini, un cartello gli comparve davanti, sbucandogli da dietro le spalle. Diceva: “per la guglia, proseguire dritto sulle scale. Per le scale, proseguire dritto. Per proseguire dritto, chiedere alla Principessa”. Quella casa e chi la abitava avevano un non so che di irreale.

I disegni di quadri raffiguranti lampadari spenti, ecco cos’era.

Non avrebbe chiesto il permesso alla principessa. Non perché temesse gli venisse negato, no no, anzi, assolutamente, neanche un po’, senza se e senza forse, senza ombra di Guido. Era che quel cartello adesso stava sgattaiolando via in punta di piedi lungo il corridoio, ora apriva la porta d’ingresso e usciva, cambiando manualmente la scritta sulla sua testa in “addio, e in culo agli addii”. La dura vita dei cartelli moderni era troppo dura. Oramai nessuno più li acquistava per segnalare qualcosa, ma solo per comunicare tra inquilini di una stessa casa o per recuperare oggetti nei ripiani più alti. Carl, il cartello che era appena uscito di casa lasciando la porta d’ingresso semi aperta e che adesso stava discutendo col citofono sul se fossero nate prima le etichette dei citofoni o i citofoni stessi, faceva parte della dinastia dei Pubblicitari, cartelli Pubblicitari. La nobile stirpe dei Pubblicitari, un tempo rispettata e stimata, ora veniva snobbata a favore dei televisori da strada, appesi su ogni parete. Le tv sarebbero potute benissimo essere considerate una sottocategoria di cartelli, magari dei cartelli più versatili, colorati, che potessero però coesistere con i più vecchi e tradizionali cartelli, senza spodestarli; ma le cose non stavano così. La responsabilità di questo enorme equivoco ricade su un signore di nome Ernesto: il giorno in cui decise di sostituire i cartelli con le tv aveva appena finito di litigare con sua moglie – la quale non sopportava che Ernesto classificasse le sue scarpe con le date di acquisto e i numeri di volte in cui venivano utilizzate – e riteneva che con una tv tale litigio non avrebbe avuto luogo, perché alle tv si può cambiare canale quando tua moglie è nei paraggi e detesta venir rinfacciata di essere una spendacciona. Da allora, ogni cartellone pubblicitario, grande o piccolo che fosse, venne sostituito da una colorita e ruggente tv, relegando ai cartelli i ruoli più infimi all’interno della società: dai buttafuori nelle discoteche – riuscendo benissimo nel loro lavoro, quando esibivano alle lunghe file all’ingresso delle grandiose illusioni ottiche che lasciavano tutti perplessi per ore ed ore – agli indicatori di pavimento bagnato nei minimarket dietro casa. Il problema coi pavimenti bagnati era che al cartello che doveva segnalarli nessuno indicava con precisione quale fosse il punto bagnato, e spesso quelle povere bestiole, una volta arrivate sul posto, rovinavano tristemente per terra dove, senza rialzarsi e senza muovere un muscolo, piangevano per la squallida impressione che davano ai clienti e al contempo davano un senso alla loro stessa esistenza da cartelli segnalatori di pavimento bagnato, perché inondavano ulteriormente con le lacrime il pavimento, di conseguenza bisognoso di un cartello segnalatore.

Dov’eravamo? Ah, le scale. Arthur prese coraggio e mise in pratica ciò che aveva imparato alla lezione di arrampicata urbana: un consiglio che gli era stato dato e che gli era rimasto impresso indelebilmente era di non distrarsi rilassando i muscoli delle gambe durante la salita. La vita ad Astra era sì serena, ma non sulle scale, indi per cui almeno su di quelle non si doveva abbassare la guardia.

Verso la fine della vorticosa rampa intravide una stanzetta tondeggiante e piuttosto grande e sentì un miagolio. Alzato lo sguardo per cercare la fonte di cotanto entusiasmo si ritrovò davanti un paio di baffi che gli sfioravano il naso, e una lingua biforcuta che glielo leccava. Stava venendo assaggiato da Doritos, che gentilmente, dopo qualche secondo di alt, lo fece passare, scivolando via sul pavimento con la classe di una palla da bowling.

Aveva davanti l’interno di una guglia, una vera guglia che dall’esterno era identica a quelle del Cremlino a Mosca. Penzolante da un lato del letto a testa in giù, lo sguardo rivolto alla tv, i capelli pendenti verso il basso: ecco Trillian. Dalla posizione in cui Arthur si trovava non notava altro che quelli e il suo pigiama da giapponese. Trillian indossava spesso anche trucchi da giapponese, sotto una cornice di capelli alla giapponese. Trillian era stata influenzata dalla cultura nipponica fin da due giorni prima, quando aveva acquistato il pacchetto base di termini giapponesi, come “arigatò”, “sushi”, “Toyota” e “gatto arrosto”. Il minimo indispensabile per tenere alta la risonanza sociale della sua famiglia: ogni settimana faceva compere per introdurre tra i suoi amici qualche novità linguistica, rimanere originale e guardare tutti dall’alto. Stava guardando “tutorial per Alfa: come innamorarsi” sulla tv principale, spalmata sulle tondeggianti pareti della stanza ovale.

In culo quei crediti, poteva usarli un’altra volta, ora doveva fare sul serio – pensò Arthur. Si concentrò, chiuse leggermente gli occhi e fece pressione sulle palpebre inferiori. Continuò a tenere gli occhi mezzi aperti, sentì arrivare le prime lacrime unite ad un solletichio alle narici e un senso di stordimento. Sentì delle gocce permalose ingombrargli le palpebre e poi straripare, a fatica, macchiandogli indelebilmente le guance e condannandolo a mostrarsi così umano di fronte a lei.

Sparito l’hud in sovraimpressione sulle sue iridi, aveva via libera.

<Non puoi impararlo con un tutorial, stupida>, esordì.

<Ma cosa dici, come altro si potrebbe?>, sopraggiunse seccata.

<Usando le centinaia di crediti che i tuoi ti danno di paghetta settimanale per inventarti modi tuoi di sorprendere, ad esempio?>

<Non sentivo tante cazzate da quando il mio gatto non s’infilò in lavatrice e quella andò nel panico perché non riusciva ad accertare che tipo di materiale fosse. Avresti dovuto sentirla, era proprio disperata: “tappeto parecchio sudicio? Spazzola per capelli usata e senza spazzola?? Portafogli in pelle raccolta ancora fresca???” Ora che ci penso, devo ancora dare un nome al gatto.>

<Come sarebbe, il suo nome era inciso sul ciondolo che aveva al collo: Doritos!>

<Ma no, quella è la prima parola che ha pronunciato, mica il suo nome..> e finalmente voltò lo sguardo verso Arthur, rimanendo pendolante. <uh, sei tu, Arthur!>

(Fine prima parte. Continua: leggi la seconda parte)